domenica 28 dicembre 2014

Quarta confutazione della religione dei testimoni di Geova


Noi cristiani dobbiano relazionarci con i testimoni di Geova con pacatezza, amabilità e gentilezza. Tuttavia dobbiamo essere fermi nell’affermare la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo e la splendente Trinità. 
Ci sono diversi modi per dimostrare che la teologia dei testimoni di Geova non è biblica. In alcuni articoli ho confutato le loro tesi da un punto di vista semantico e biblico. In questo articolo descriverò invece due tesi facili e veloci per contrastare la teologia non storica e non biblica dei testimoni di Geova. 

Innanzitutto consideriamo la parola “martire”. In greco questa parola significa “testimone”. Tutti sappiamo che i martiri testimoniavano fino alla morte la Divinità di Gesù Cristo. Anche se i romani gli intimavano di riconoscere la divinità dell’imperatore a costo di perdere la vita, i cristiani negavano la divinità dell’imperatore e affermavano la Divinità di Gesù Cristo, come per esempio si nota nel documento antico “il martirio di Policarpo”. (1).
I primi cristiani (martiri), erano pertanto testimoni di Cristo, e non di YHWH (pur considerando che YHWH è Dio). Pertanto, se i primi cristiani erano testimoni di Cristo, perchè oggi i cristiani dovrebbero denominarsi “testimoni di Geova”? (che oltretutto è un nome non biblico, vedi nota 1b)

La seconda tesi è ancora più semplice e intuitiva. Nel Vangelo di Matteo (28, 19), Gesù dice: 

Andate dunque, e fate discepoli di tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,

Siccome il battesimo è stato sempre fatto nel nome di Dio e non di una divinità minore (e quindi creata), questo verso dimostra che i primi cristiani consideravano che Gesù è Dio.
Inoltre in vari versi degli Atti degli Apostoli (2, 38; 8, 16; 10, 48; 19, 5), si nota che i primi cristiani battezzano nel nome di Gesù Cristo. Ancora una volta quindi abbiamo una prova che i primi cristiani battezzavano nel nome di Gesù e consideravono quindi che Gesù fosse Dio. Se Gesù non fosse Dio, ma una divinità minore o un “essere divino”, ma non uguale al Padre, come considerano i testimoni di Geova, allora nessuno dei primi cristiani avrebbe battezzato i nuovi credenti in nome di Gesù Cristo. 

Yuri Leveratto

Nota: 1-http://www.newadvent.org/fathers/0102.htm

martedì 23 dicembre 2014

Terza confutazione della religione dei testimoni di Geova: Chi è Gesù Cristo


Tutta la religione dei testimoni di Geova degrada Gesù Cristo a semplice “dio minore”. Quindi i testimoni di Geova adorerebbero due dei: Geova e il “dio minore”, che per loro è Gesù Cristo. 
Partiamo ad analizzare questi passaggi del Vangelo di Giovanni, (1, 1-3):

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

“E il Verbo era Dio” la cui pronuncia in greco è: “kai Theos en ho Logos”

Percui il Verbo è il Creatore del mondo, l’unico vero Dio (Giovanni 1,1). 
I testimoni di Geova invece, stravolgendo il passo in questione, hanno tradotto “E il Verbo era un dio”, come se il Verbo (Gesù Cristo) fosse un “dio minore”.
Innanzitutto procediamo per logica: come potrebbe essere un “dio minore” se esisteva “dal principio” e coesisteva con Dio fin “dal principio”? (infatti è scritto “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio”). Giovanni avrebbe potuto scrivere in altro modo se avesse voluto comunicarci che Gesù Cristo è un “dio minore”, e soprattutto non l’avrebbe messo nel suo Prologo. 

Vediamo un punto dei Salmi (33, 6): 

I cieli furon fatti dalla parola dell’Eterno” 

Percui nei Salmi si afferma che l’Eterno (Dio) ha creato i cieli. 

Ma nel Vangelo di Giovanni (1, 3) si afferma: 

tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

Sono in contraddizione il passaggio dei Salmi con il passaggio del Vangelo di Giovanni (1,3)? 
Niente affatto. Con una logica semplice si capisce che Dio ha creato i cieli (Salmi) e il Verbo ha creato ogni cosa (Giovanni 1,3). Ovvio, perche il Verbo è Dio. Infatti nella Bibbia si sancisce chiaramente che fu Dio a creare il cielo e la terra e non un “dio minore”, che stava presso di lui. 

Ora vediamo la Lettera ai Colossesi (1, 16-17):

perchè in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte in lui sussistono.

“perchè in lui furono create tutte le cose”, quindi il Verbo è il Creatore.

Ma anche qui i testimoni di Geova, nel loro libro denominato “Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture” hanno aggiunto una parola, vediamo quale: 

perchè in lui furono create tutte le altre cose

è stata aggiunta la parola “altre” come se fosse un creatore secondario che ha creato “qualcosa”, un dio minore dunque. 

Ecco che lentamente si capisce tutta l’architettura di come si sia attuata la traduzione dei testimoni di Geova. Lo scopo principale è degradare Gesù Cristo, da Dio a un “dio minore”. Ma i primi cristiani adoravano Gesù Cristo come Dio. Come avrebbero potuto i primi cristiani andare al patibolo piuttosto di non rinnegare che Gesù Cristo è Dio, se lo avessero considerato un “dio minore”?

Se seguissimo il ragionamento dei testimoni di Geova dovremmo negare anche il verso di Giovanni (1, 3):

tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

Certo perchè qui “lui” è il Verbo, e si sancisce che ha creato “tutto”, ma secondo i testimoni di Geova lui stesso sarebbe stato creato da Dio, quindi il Verbo avrebbe creato “tutto” eccetto se stesso, e quindi non avrebbe creato “tutto” per davvero.  

Nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni vi sono poi affermazioni molto importanti di Gesù, che sta pregando il Padre. 

Ecco un primo, significativo passaggio Giovanni (17, 24):

Padre, voglio che anche quelli che tu mi hai dato siano con me, dove sono io, affinchè contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato, poichè mi hai amato prima della creazione del mondo.

In questo passaggio si evince che Gesù era con il Padre prima della creazione del mondo, dell’universo. Questo passo, indirettamente, conferma la Divinità di Cristo.

Vediamo alcuni passaggi dell’Apocalisse: 

(1, 17-18):
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.

(22, 13):
Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine.

Vediamo ora questo passaggio: 
(1, 8): 
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

Per cui ancora una volta, si sancisce che Dio è il primo e l’ultimo. Ma siccome nei passaggi (1, 17-18) e (22, 13) era Gesù Cristo il primo e l’ultimo, allora Gesù Cristo è il Signore Dio. 

I nostri amici testimoni di Geova, sostengono che ci sia un solo Dio, “Geova”, e un “dio minore”, Gesù Cristo, il figlio. Ma ciò ci mostra che essi credono in due dei, uno maggiore e uno minore, mentre la Bibbia ci dice chiaramente che vi è un solo Dio! Ora il paradosso, è che se credono in due dei sono politeisti, mentre se ammettono di adorare solo Geova, allora ammettono di non essere cristiani. Infatti fanno parte di un’altra religione, quella dei testimoni di Geova. 

Quando Gesù nacque significa che il Verbo (Dio) si fece carne e Gesù Cristo fu riconosciuto varie volte come Dio. Infatti vediamo questo punto riferito a Tommaso: 
Vangelo di Giovanni (20, 28):

Rispose Tommaso e gli disse: “Signore mio e Dio mio!”

In questo caso Gesù non ha negato di essere Dio, ma ha risposto, in Giovanni (20, 29): 

Gli disse Gesù: “Perchè mi hai visto hai creduto? Beati coloro che hanno creduto senza vedere”.

Isaia ci dice che tutto fu creato da Yahweh. Ora nel Nuovo Testamento ci viene detto che tutto fu creato per mezzo del Verbo, Gesù Cristo. Certo perchè Gesù Cristo, il Verbo, è Dio, quindi è Yahweh!

Ma per i testimoni di Geova c’è un Dio Creatore e un “dio minore”, ecco quindi che negano i versi di Isaia, per esempio (40, 28) o (44, 24): 

Così dice l'Eterno, il tuo Redentore, colui che ti ha formato fin dal seno materno: «Io sono l'Eterno che ho fatto tutte le cose, che da solo ho spiegato i cieli e ho distesa la terra; chi era con me?

Non vi era un “dio minore” quando Dio ha fatto tutte le cose. E’ chiaro.

Lo stesso si può applicare al concetto di Salvatore. Nella Bibbia è Yahweh, nel Nuovo Testamento è Cristo. Abbiamo quindi due salvatori? Niente affatto. Il Salvatore è uno.

In Isaia (42, 8), c’è scritto: 

Io sono il Signore: questo è il mio nome;
non cederò la mia gloria ad altri,
nè il mio onore agli idoli.

Ma nel Vangelo di Giovanni (17, 5) c’è scritto: 

E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.

Quindi Gesù Cristo dice chiaramente che aveva gloria presso il Padre prima che il mondo fosse, ossia prima della notte dei tempi, cioè dall’eternità!
Come potrebbe Gesù Cristo aver fatto un’affermazione così inaudita se fosse solo un “dio minore”? (ovviamente ne fece altre di inaudite come “io invece vi dico” che ho spiegato nel mio articolo “La vera identità di Gesù Cristo”). 

Notiamo anche che Isaia (44, 6) il Signore è il primo e l’ultimo. 

Così dice il Signore, il re d’Israele,
il suo redentore, il Signore degli eserciti:
«Io sono il primo e io l’ultimo;
fuori di me non vi sono dèi.

Esattamente come nell’Apocalisse 1:17-18 e 22:13

Come potrebbe aver detto Gesù Cristo “io sono il primo e l’ultimo” se fosse un “dio minore”? Come potrebbe l’Apostolo Giovanni aver ricevuto questa rivelazione e poi averla scritta se Gesù Cristo fosse un “dio minore”? 
Un “dio minore” che dice le stesse cose dette da Dio in Isaia (44, 6)? Impossibile. 

Torniamo alla grammatica: 

“E il Verbo era Dio” la cui pronuncia in greco è: “kai Theos en ho Logos”
I testimoni di Geova sostengono che siccome davanti alla parola “Dio” non ci sia l’articolo determinativo ho = ‘il’, “Dio” si dovrebbe tradurre come “dio”, cioè “dio minore”.
Il fatto che non ci sia l’articolo determinativo “ho” davanti a “Dio”, ma che “ho” sia davanti a “Logos” (Parola, Verbo), non significa che “Dio” (Theos), sia un “dio minore”. 
Da un punto di vista grammaticale, “ho Logos” è il soggetto, e Theos è il predicato nominale. In greco non è necessario usare l’articolo determinativo con un predicato nominale in questo tipo di frase. Se si fosse scritto “ho Theos” avrebbe significato che il Verbo è la stessa persona del Padre, (infatti nella seconda frase del passo 1, Dio si riferisce al Padre). Ma l’Apostolo Giovanni ha voluto dirci che il Verbo, pur essendo Dio, non è la stessa persona del Padre. 
Tutto ciò è stato confermato da eminenti studiosi come  C. H. Dodd, (“New Testament Translation Problems II,” The Bible Translator 28, 1[January 1977]:103).
Anche altre traduzioni dove è scritto: “Il Verbo era divino” sono errate, in quanto Giovanni ha detto: kai theos en ho logos (e Dio era il Verbo), e non ha detto “kai theios en ho logos”.
Per cui la traduzione “e il Verbo era un dio” è errata sia dal punto di vista logico (comparando con gli altri passi dell’intera Bibbia, e del Vangelo di Giovanni in particolare, in modo da capire quale era realmente il suo pensiero), sia dal punto di vista grammaticale. 
Vi sono poi altre frasi e comportamenti di Gesù che indicano la sua natura consustanziale al Padre. Nel capitolo quinto del Vangelo di Matteo, parlando della legge mosaica, ossia la legge data da Dio, Gesù ripetè varie volte: “avete inteso che fu detto…io invece vi dico”. Gesù quindi insegna sui giusti comportamenti da tenere nel caso di matrimonio, giuramenti, amore al prossimo. Per sei volte viene ripetuta la frase: “io invece vi dico”. 
Come potrebbe un semplice profeta aggiungere o modificare le leggi date da Dio se non chi è per sua natura consustanziale al Padre? 
I profeti dicevano: “Così parla il Signore”, mentre Gesù disse: “io invece vi dico”.
E’ noto che i giudei osservavano la legge del riposo durante il sabato, e per questo criticarono Gesù per aver curato un paralitico di sabato Giovanni (5, 1, 10). Ma Gesù, dimostrando di essere al di sopra della legge dice (Vangelo di Giovanni 5, 17):

Ma Gesù rispose loro: “Mio Padre è all’opera fino ad ora ed anch’io sono all’opera”.

Gesù si pone quindi al di sopra della legge, per esempio anche quando dice:

“Si, il Figlio dell’uomo è padrone del sabato” (Matteo, 12, 8).

Sono affermazioni inaudite, che mai uscirono dalla bocca di nessun uomo, e che provano la sua verà natura di Gesù Cristo, che è consustanziale al Padre. 

E’ Onnipotente: Giovanni (1: 3), Lettera ai Colossesi (1, 16-17).  

Inoltre Gesù Cristo ha invitato i credenti a pregare in lui, Vangelo di Giovanni (14, 14):

Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò

Ma qui i testimoni di Geova traducono: “Se chiedete qualcosa in mio nome, io la farò”. 

Hanno tolto il “mi” come per indicare che non è lui al quale dobbiamo chiedere.

YURI LEVERATTO
Copyright 2016

lunedì 22 dicembre 2014

Seconda confutazione della religione dei testimoni di Geova: il nome di Dio


I testimoni di Geova si riferiscono a Dio, con il nome “Geova”. In questo articolo dimostreremo che denominare l’unico e vero Dio con un nome “non biblico”, è errato.
Nel Tanakh (conformato dai 39 libri che oggi noi cristiani denominiamo Antico Testamento), Dio, il Creatore del mondo, era nominato in diversi nomi, proprio per il fatto che l’Onnipotente non può essere limitato da un solo nome. Il nome più utilizzato nella Bibbia per riferirsi a Dio, è YHWH, il tetragramma biblico. 
Secondo alcuni studiosi (1) il tetragramma biblico, o YHWH, (uno dei nomi di Dio, il più ricorrente nella Bibbia, citato 6823 volte, la cui pronuncia è Yahweh), deriverebbe dalla radice triconsonantica dell’ebraico biblico היה, che significa “essere”.
Naturalmente Dio, nella Bibbia viene citato innumerevoli volte anche con altri termini: Elohim, El, Shaddai, Elyon, Adonai, ecc. (Kyrios in greco, ossia: Signore) (2). Dio si è anche auto definito con il nome IO SONO. 
I primi cristiani credevano con fermezza assoluta che Gesù Cristo fosse il Dio della creazione biblica, IO SONO, e questo lo si evince dai seguenti passi dell’Esodo, comparati con i passi del Vangelo di Giovanni. Vediamoli.

Esodo (3, 13, 14): 
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi"». 

Quindi qui Dio si definisce Io-Sono, esattamente come nel seguente passaggio di Giovanni (8, 23-24), 

E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati».

E ancora in Giovanni (8, 53-58):

Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono».

E’ chiaro pertanto che gli Apostoli, gli Evangelisti e i primi cristiani credevano nell’assoluta corrispondenza tra YHWH e Gesù Cristo. I testimoni di Geova negano ovviamente la Divinità di Gesù Cristo, e utilizzano il nome Jehovah (o Geova in italiano), anche quando nella Bibbia il nome di Dio è indicato con altri termini. 
Nella “Traduzione del Nuovo Mondo e delle Sacre Scritture”, il libro di riferimento per i testimoni di Geova, in Genesi (18, 3) c’è scritto Jehovah (in  inglese), e non Adonai come invece è scritto nel testo originale. 
Quindi vediamo che già a partire dalla Genesi i testimoni di Geova hanno sovvertito le Sacre Scritture addirittura cambiando uno dei nomi di Dio. 
Similmente si potrebbe dire per Esodo (4, 10-13) dove Mosè si rivolge a Dio con il nome di Signore, ma nuovamente nella “Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture”, si traduce nuovamente con Jehovah.
La Watchtower Society (o “società della torre di guardia”), pone enfasi nel nome Jehovah, ma ciò non è supportato dai testi biblici e tantomeno dalla predicazione di Gesù Cristo.
Nel VIII secolo d. C. i Masoreti, nell’aggiungere le vocali a tutti i vocaboli ebraici dell’AT, al tetragramma YHWH posero le vocali della parola adonai,
per consentire ai Giudei di leggere il nome di Dio senza violare Esodo 20, 7. In questo modo, il nome YHWH (da cui “Javè”),
si scriveva “YaHoWàH”, con le consonanti di YHWH e con le vocali di adonai. Il nome “YaHoWàH”, quindi, (dal quale deriva "Geova"), non ha fondamento biblico. 

La pronuncia corretta di YHWH è Yahweh o Jehovah (italianizzato Geova)?

A pagina 23 del “Kingdom interlinear translation” (dei testimoni di Geova), la Watchtower society ammette che la pronuncia corretta è “Yahweh”. 

C’è scritto: “While inclining to view the pronunciation “Yahweh”, as the more correct way, we have retained the form “Jehovah”, because of people familiarity, with it since the 14 th century”. 

Che tradotto all’italiano significa: 

Anche se siamo inclini a riconoscere che Yahweh è il modo corretto, abbiamo adottato il nome Jehovah perchè è popolare tra la gente fin dal secolo quattordicesimo. 

E’ una dichiarazione inaudita che prova che l’esatta pronucia di uno dei nomi di Dio non è ritenuta importante dai vertici della Watchtower Society. Inoltre, anche se fosse stato vero che Jehovah sia stato un modo popolare di riferirsi a Dio, non era l’unico! E Gesù Cristo non disse mai che nelle preghiere si includesse alcun nome per indicare Dio.
Inoltre la frase del “Kingdom interlinear translation” è sbagliata anche perchè la forma errata di Geova è apparsa per la prima volta in una traduzione inglese della Bibbia per opera di Williarn Tyndale, che risale solo al 1530 dopo Cristo, quindi semmai al sedicesimo secolo, e non quattordicesimo. Questa forma errata è, entrata poi sia nelle traduzioni della Bibbia di questi ultimi quattro secoli sia in alcune iscrizioni, anche di chiese cattoliche. Ma tutti questi documenti a favore della forma Geova non sono anteriori all’anno 1530. In nessun documento prima di quell’anno, e in nessuna traduzione della Bibbia prima del 1530 d.C., è presente la forma “Geova”.

Ricapitolando: Ci sono vari nomi divini nella Bibbia. Nelle scritture in ebraico, l’Antico Testamento, la più utilizzata è YHWH, il tetragramma, la cui pronuncia esatta non si conosce, ma quella che si pensa sia la più corretta è Yahweh. 
Nelle scritture greche, si pregava principalmente nel nome di Gesù Cristo. E inoltre si insegnava che Gesù Cristo è l’unico nome per mezzo del quale si possa essere salvati. I primi cristiani battezzavano nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, indicando chiaramente la loro fede nella Trinità. Inoltre i primi cristiani hanno vissuto e sono morti da martiri per affermare il nome di Gesù Cristo, non per affermare il nome “Jehovah”. 
I nomi Yahweh e Gesù Cristo non sono affatto in competizione tra di loro, ma confermano invece che Gesù Cristo è consustanziale a Yahweh, come vedremo nella terza confutazione alla religione dei testimoni di Geova. 

YURI LEVERATTO
Copyright 2015

Note: 
1-http://www.jewishencyclopedia.com/articles/11305-names-of-god
2-https://en.wikipedia.org/wiki/Names_of_God_in_Judaism

sabato 20 dicembre 2014

Prima confutazione della religione dei testimoni di Geova


La religione dei testimoni di Geova è stata fondata nel 1884 da Charles Taze Russell. Si basa sugli scritti di Russel e Rutherford e sulla loro interpretazione della Bibbia. 
Charles Taze Russel fu inizialmente un seguace della Chiesa presbiteriana. Era particolarmente affascinato dal tema del secondo avvento di Cristo, e iniziò a studiare le profezie. Aveva considerato la predizione che aveva fatto Guglielmo Miller sull’arrivo di Cristo nella terra nel 1844. Anche se Miller aveva fallito, Russell si convinse che qualcosa doveva pur esserci di vero in quel metodo, e cominciò a fare i suoi propri calcoli in modo da predire il secondo avvento del Signore. 
Già a partire dal 1870 Russel iniziò a dare proprie interpretazioni della Bibbia, in particolare sulla Risurrezione del Signore, insegnando che Gesù Cristo non era risuscitato nella carne, ma solo nello spirito. Già dall’inizio della sua predicazione Russel si stava quindi allontanando dalla Bibbia, la Parola di Dio. 
Secondo Russel Gesù Cristo sarebbe ritornato sulla terra nel 1874, quindi il millennio sarebbe iniziato in quell’anno. Pertanto si doveva proclamare il piano divino e unire i veri “cristiani” in modo che partecipassero al regno del Signore. Nel 1879 Russel iniziò a pubblicare il periodico “The Watchtower and herald of Christ presence” (La torre di guardia e l’annuncio della presenza di Cristo). Quindi nel 1884 fu fondata la “società della torre di guardia”. 
Le predizioni di Charles Russel e dei suoi sucessori risultarono false in ripetute occasioni. Vediamole: 

1899. L’Apocalisse inizierà nel 1914.
«La “battaglia del gran giorno di Dio Onnipotente” (Apocalisse 16,14), che si concluderà nel 1914 dC con il rovesciamento completo del presente dominio della terra, è già iniziata» (C. Russell, “The Time Is at Hand”, p. 101, 1908 edition).

1916. Il Regno millenario è iniziato nel 1873.
«La cronologia biblica qui presentata mostra che i sei grandi 1000 anni iniziati con Adam sono finiti e che il grande 7° giorno, dei 1000 anni del regno di Cristo, è iniziato nel 1873» (C. Russell, “The Time Is at Hand”, page II)

1917. L’Armageddon è cominciato.
«L’attuale grande guerra in Europa è l’inizio dell’Armageddon descritto dalle Scritture» (Pastor Russell’s Sermons, 1917, page 676)

1918. I santi saranno resuscitati nel 1925.
«Perciò possiamo fiduciosamente aspettarci che il 1925 segnerà il ritorno di Abramo, Isacco, Giacobbe e dei profeti fedeli del passato, in particolare quelli nominati dall’Apostolo in Ebrei 11» (C. Russell, “Millions Now Living Will Never Die”, page 89)

1922. Gesù ritornerà nel 1925.
«La data del 1925 è ancora più distintamente indicata dalle Scritture rispetto al 1914» (“The Watchtower”, September 1st, 1922, page 262)

1923. Gesù ritornerà nel 1925.
«Il nostro pensiero è che il 1925 è sicuramente previsto dalle Scritture. Come Noè, il cristiano ha ora molto più su cui basare la sua fede, Noè basava invece la sua fede in un diluvio a venire» (“The Watchtower”, April 1st, 1923, page 106)

1925. Gesù ritornerà nel 1925.
«L’anno 1925 è qui. Con grandi aspettative i cristiani hanno atteso quest’anno. Molti hanno fiduciosamente atteso che tutti i membri del corpo di Cristo cambieranno nella gloria celeste nel corso di quest’anno. Ciò può essere realizzato. A tempo debito Dio porterà a compimento i suoi propositi. I cristiani non dovrebbero essere così profondamente preoccupati per ciò che potrebbe accadere quest’anno» (“The Watchtower”, January 1st, 1925, page 3)

1940. L’Armageddon avverrà entro l’anno.
«L’anno 1940 sarà certamente l’anno più importante, perchè l’Armageddon è molto vicino» (“Informant”, May 1940)

1941. Gesù tornerà dai Monti.
«Riceveremo il dono, i bambini marceranno stretti, non un giocattolo per il loro piacere, ma saremo strumenti del Signore per un lavoro più efficace nei restanti mesi prima dell’Armageddon» (“The Watchtower”, September 15th, 1941, page 288)

1946. L’Armageddon è alle porte.
«Il disastro dell’Armageddon, maggiore di quello che accadde a Sodoma e Gomorra, è alla porta». (“Let God be True”, 1946, page 194)
Charles Russel morí nel 1916, ma anche il suo sucessore Josè Rutherford continuò a proporre false predizioni, che ovviamente non si verificarono. Intorno al 1925 i testimoni di Geova insegnavano che la fine del mondo sarebbe avvenuta nel 1975 (Cesar Vidal Manzanares, ricordi di un testimonio di Geova, pag. 14-16). 
E’ evidente pertanto che tutte le predizioni fatte dai testimoni di Geova si sono rivelate false. A questo punto i testimoni di Geova avrebbero potuto ponderare su questo passaggio biblico, Deuteronomio (18, 22): 

“Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui.”

Ma evidentemente non lo fecero. 
Analizziamo ora alcuni punti della teologia dei testimoni di Geova. 
Innanzitutto il libro al quale fanno riferimento i testimoni di Geova non è la Bibbia, ma è una traduzione della Bibbia che riflette la loro visione teologica, detta “Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture”. Questo libro differisce dalla Bibbia in molti punti fondamentali, ma soprattutto sulla persona di Gesù Cristo che viene presentato non come il Verbo, Dio incarnato, vero Dio e vero uomo, ma come un “dio minore”, quindi creato dal Padre. Inoltre il nome di Dio viene indicato in Geova, quando sappiamo che nel Tanakh i nomi di Dio sono numerosi, ma mai viene utilizzato il nome Geova, come analizzeremo nella seconda confutazione. 
Inoltre Russell e Rutherford hanno sempre sostenuto che la chiave per comprendere la “Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture” sarebbe stata lo studio dei propri scritti e delle proprie opere. Ma la Bibbia non può  essere una interpretazione privata. Infatti, Seconda Lettera di Pietro, (1, 20): 

Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione

La Bibbia vuol dire semplicemente quello che vi è scritto, ed ogni interpretazione privata si allontana dal senso che volevano intendere gli autori, che erano ispirati dallo Spirito Santo. Già Cristo disse che non vi è alcuna necessità di una chiave, nel Vangelo di Giovanni (5, 39): 

Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me.

Per quanto riguarda il concetto di Dio, i testimoni di Geova ripudiano la dottrina della Trinità e affermano che sarebbe una “dottrina pagana”. Per loro pertanto Gesù Cristo non è Dio, e neppure lo Spirito Santo lo è. Per loro solo il Padre, che denominano erroneamente Geova, è Dio. 
La Bibbia insegna però che Dio è uno in tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La Trinità non è un’interpretazione pagana, ma è insita nella Parola di Dio. Vediamo alcuni passaggi: Vangelo di Matteo (3, 16-17):

Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

In questo passo del Vangelo di Matteo, che secondo una tradizione antica fu scritto in aramaico o in ebraico intorno al 45 d.C., non vi è solo il Figlio, Gesù Cristo, ma vi è anche lo Spirito, e il Padre, nelle cui parole c’è un richiamo al servo di YHWH (Isaia 42, 1).
Vediamo ora un altro passaggio del Vangelo di Matteo, dove Gesù ordina il battesimo nel nome della Trinità (28, 18-20):

Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Come sappiamo lo scopo principale della missione di Gesù Cristo sulla terra è stato “togliere il peccato del mondo” (Vangelo di Giovanni, 1, 29). La sua missione ha però avuto anche altri obiettivi, tra i quali quello di rivelare la splendente Trinità. In questo passaggio Gesù invita a battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. E’ un invito chiarissimo ad accogliere in noi le tre persone dell’unico Dio. Da notare che Gesù Cristo disse: “battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, e non disse: “nei nomi del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Anche per quanto riguarda lo Spirito Santo, i testimoni di Geova negano che egli sia una delle persone della Trinità e pertanto, Dio. Ma anche per lo Spirito Santo i passaggi biblici che certificano la sua Divinità sono molti, per esempio vediamo subito un passaggio degli Atti degli Apostoli (5, 3-4)

Ma Pietro disse: «Anania, perchè Satana ti ha riempito il cuore, cosicchè hai mentito allo Spirito Santo e hai trattenuto una parte del ricavato del campo? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e l’importo della vendita non era forse a tua disposizione? Perchè hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio».

In questo passaggio si nota chiaramente che Pietro credeva che lo Spirito Santo è Dio.
Sono tantissimi i passaggi della Bibbia che fanno esplicito riferimento alla Trinità, per chi volesse approfondire rimando al mio articolo corrispondente: (http://yurileveratto2.blogspot.com.co/2015/11/la-trinita-il-fondamento-della-fede.html). 

I testimoni di Geova negano la Divinità di Gesù Cristo. Spesso associano Gesù Cristo all’arcangelo Michele, in modo molto confuso. Nel loro “Studio della Scrittura” riportano, al volume 5: “Il nostro Redentore esistette come spirito prima di farsi carne e vivere tra gli uomini. Era conosciuto come l’arcangelo Michele”. Nella rivista Atalaya, del 1961, si afferma: “Cristo Gesù, Michele, combatté con il drago e questo fu gettato a terra”. 
La Bibbia è però  chiara sulla Divinità del Figlio, espressamente nei passaggi seguenti: Vangelo di Giovanni (1,1) – (10, 30), Lettera ai Filippesi (2, 3-11), 1 Giovanni (5, 20), Lettera ai Colossesi (2, 8-9). Per chi volesse approfondire sulla Divinità di Gesù Cristo può leggere il mio articolo corrispondente (http://yurileveratto2.blogspot.com.co/2015/11/la-vera-identita-di-gesu-cristo.html). 
Inoltre i testimoni di Geova negano l’incarnazione di Cristo, e insegnano che Gesù non possedeva due nature, ossia vero Dio e vero uomo quando si trovava sulla terra e che nemmeno ora le possiede. Per loro Gesù era semplicemente un essere umano perfetto. 
I passaggi biblici sull’incarnazione del Verbo (Dio) sono invece vari. Per esempio: 1 Timoteo (3, 16); (2, 5); 1 Giovanni (1, 7); Lettera agli Ebrei (10, 11-14); Lettera ai Filippesi (2, 6-11); Libro di Isaia (9, 6). 
(Chi volesse approffondire il concetto della doppia natura di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, può leggere qui: 
http://yurileveratto2.blogspot.com.co/2015/12/la-doppia-natura-di-gesu-cristo-vero.html)

I testimoni di Geova negano la Risurrezione corporale di Cristo. Sappiamo invece da numerosi passaggi biblici che la Risurrezione avvenne in carne, non nello spirito: Vangelo di Luca (24, 36-49); Vangelo di Giovanni (20, 19-31). Naturalmente il corpo di Gesù Cristo risuscitato non era lo stesso di prima: era glorificato. Possiamo approfondire la Prima Lettera ai Corinzi (15, 1-58) per renderci conto di come Cristo resuscitò e di come anche i credenti in lui avranno un corpo glorificato. 
Anche per quanto riguarda il concetto di salvezza i testimoni di Geova differiscono sostanzialmente dalla fede cristiana. Per loro Gesù espiò solo il peccato di Adamo, e credono che nella croce fu versato il sangue di un uomo. In realtà ciò che da efficacia al sangue di Cristo è il fatto stesso che Gesù Cristo è Dio. Siccome la Bibbia dice chiaramente che solo Dio può perdonare i peccati (Vangelo di Marco 2, 7), ecco che Dio ha potuto attuare l'espiazione dei peccati sulla croce. 
Spogliando Cristo della sua Divinità i testimoni di Geova negano l'espiazione sulla croce per i nostri peccati, in quanto se Cristo era solo un uomo, anche se perfetto, non avrebbe potuto espiare tutti peccati sulla croce. (Per chi volesse approffondire: http://yurileveratto2.blogspot.com.co/2015/11/lo-scopo-principale-della-missione-di.html)

Secondo i testimoni di Geova i malvagi avrebbero un’altra opportunità per ricevere a Cristo durante il millennio. Ma la Bibbia spiega chiaramente che chi si pente dei propri peccati e riconosce Gesù Cristo come unico Signore e Salvatore otterrà il perdono dei propri peccati e la salvezza. Per esempio lo si vede nell'episodio del buon ladrone, che non per le opere, ma per ammettere di essere un peccatore e avere fede in Gesù, si salva. Infatti ecco il passaggio corrispondente nella Seconda Lettera ai Corinzi (6, 2): 

“Egli dice infatti:
Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso.
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”

Anche sul tema escatologico le dottrine insegnate dai testimoni di Geova non sono bibliche, ma rispecchiano gli insegnamenti errati di Russell e Rutherford. Secondo i testimoni di Geova coloro i quali resusciteranno avranno mille anni di tempo per prendere una decisione. Se non obbediranno al Vangelo durante questo tempo di mille anni saranno annichilati. 
La Bibbia invece insegna molto chiaramente che solo i i salvi resusciteranno prima del millennio, e il resto dei morti (ossia i non giusti, i non salvati), risusciteranno alla fine del millennio e saranno e saranno giudicati da Dio e inviati al fuoco eterno (Apocalisse 20, 5-6; 11, 15; Lettera agli Ebrei 9, 27). 

YURI LEVERATTO
Copyright 2015

giovedì 20 novembre 2014

La lunga disputa tra la Chiesa Cattolica e la Massoneria


A partire dal 1738 la Chiesa Cattolica ha emesso più di venti documenti solenni nei quali ha condannato l’appartenenza alla Massoneria e ha proibito ai Cattolici di farvene parte. 
Perché?
Nel 1736 l’Inquisizione procedette a indagare sulle attività di una loggia massonica a Firenze, che fu poi chiusa nel 1737.
Nel 1738 il papa Clemente XII emise la bolla papale detta “In Eminenti Apostolatus Specula”, il primo documento ufficiale della Chiesa Cattolica contro la Massoneria.
Eccone un estratto:

Ma come la natura del crimine è tale che allerta e produce un clamore che lo tradisce, per questo motivo, le società menzionate hanno ispirato nei cuori dei fedeli una tal sfiducia così forte, che aderire a tali associazioni, da parte di persone prudenti e oneste, è come mettersi addosso una fama malefica e perversa. Di fatto, se non stessero attuando male, non avrebbero un odio così grande per la luce.

Con questo primo documento del Vaticano contro la Massoneria, si proibì ai Cattolici di partecipare alle logge, e si suggerì ai vescovi di svolgere azione inquisitoria dell’eresia.
Nel 1751, solamente 13 anni dopo, il papa Benedetto XIV emise una nuova bolla detta “Providas romanorum” contro la Massoneria. Fu proibito ai cattolici di far parte delle logge, pena la scomunica immediata.
Nel corso del secolo XIX sono stati vari i papi che hanno emesso altre bolle contro la Massoneria, come per rimarcare che farne parte era considerato un peccato grave, che avrebbe portato alla scomunica.
Nel 1821 il papa Pio VII emise la bolla “Ecclesiam a Jesu Christo”. Nel 1826 Leone XII emise la bolla “Quo Graviora”. Nel 1829 Pio XVII emise un’altra bolla contro la Massoneria detta “Traditi Humiliati”. E così fece Gregorio XVI con la bolla “Mirari Vos” nel 1832.
Pio IX ne emise adirittura sei: rispettivamente nel 1846, 1849, 1864, 1865, 1869 e 1873.
Anche papa Leone XVIII emise altre bolle e documenti in contrapposizione alla Massoneria, in totale ben otto, dal 1882 al 1902. La più importante fu quella denominata “Humanum Genus”, del 1884.
Nel 1917 nel codice della legge canonica si rimarcò che aderire alla Massoneria avrebbe portato ad una scomunica immediata.
Nel 1980 la conferenza dei vescovi tedeschi ha redatto un documento contro la Massoneria indicando che i suoi membri negano la rivelazione, e mettono in dubbio la verità. La Massoneria viene indicata come una corrente filosofica che abbraccerebbe il Deismo, e quindi in contrasto con il Cattolicesimo.
Nell’anno successivo la congrega della dottrina della Fede, presieduta dal cardinale Seper, ha inviato una lettera ai cardinali americani nella quale sostanzialmente si ribadisce la proibizione per i Cattolici di far parte della Massoneria, pena la scomunica.
Nel 1983, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, il cardinale Joseph Ratzinger, ha emesso una “Dichiarazione sulle associazioni massoniche”, nella quale si ribadisce lo stato di grave peccato di chi vi aderisce e la conseguente impossibilità a ricevere la comunione.
Ecco il testo della dichiarazione, tratto dal sito web del Vaticano (1):

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
DICHIARAZIONE SULLA MASSONERIA
È stato chiesto se sia mutato il giudizio della Chiesa nei confronti della massoneria per il fatto che nel nuovo Codice di Diritto Canonico essa non viene espressamente menzionata come nel Codice anteriore.
Questa Congregazione è in grado di rispondere che tale circostanza è dovuta a un criterio redazionale seguito anche per altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie più ampie.
Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione.
Non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito, e ciò in linea con la Dichiarazione di questa S. Congregazione del 17 febbraio 1981 (Cf. AAS 73, 1981, p. 240-241).
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Dichiarazione, decisa nella riunione ordinaria di questa S. Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della S. Congregazione per la Dottrina della Fede, il 26 novembre 1983.
Joseph Card. RATZINGER
Prefetto
Fr. Jérôme Hamer, O.P.
Arcivescovo tit. di Lorium
Segretario

Come vediamo, a partire dal 1737, ovvero dopo soli 20 anni dalla nascita, nel 1717, della Massoneria moderna a Londra, la Chiesa Cattolica ha opposto ripetutamente il suo veto alla partecipazione di Cattolici all’interno delle Logge.
Da un punto di vista religioso la Massoneria è stata accusata dalla Chiesa Cattolica di avere una visione del Creatore differente rispetto a quella canonica Apostolica Romana.
In particolare l’uso del nome “Grande Architetto dell’Universo”, per riferirsi al Creatore è contestato dalla Chiesa Cattolica perché richiama ad un’entità costruttrice, ma non creatrice dell'universo.
E’ l’accusa di “Deismo”, dove Gesù non sarebbe "Dio", “Il Centro della Storia e del Cosmo”, “Il Salvatore del Mondo”, e “Il Cammino, la Verità e la Vita”, ma sarebbe stato “solo” un grande iniziato, allo stesso modo di Krishna, Budda, Zoroastro, ecc.
Il Deismo era stato seguito, come corrente religiosa-filosofica, già a partire dal XVII secolo da grandi filosofi come Locke, Kant e Voltaire.
In quest’ottica la religione cattolica era vista come uno strumento nelle mani del clero per mantenere il potere sulle masse degli adepti, ma non rappresentava la verità, da assimilare più con gli aspetti iniziali del Cristianesimo, ma anche con altri credi (Sufismo, Esseni, religioni panteiste).
Per Locke, che anticipò il Deismo, lo Stato deve essere aconfessionale, laico, totalmente avulso da logiche riconducibili a idee religiose. Anche l’Ateismo viene però visto come negativo da Locke, che accusò i suoi sostenitori d’amoralità.
La Massoneria venne pertanto incolpata fin dal secolo XVIII di mettere sullo stesso piano tutte le religioni, non riconoscendo quella Cattolica come portatrice della verità.
Da un punto di vista politico la Massoneria, che ha utilizzato il motto “libertà, uguaglianza, fratellanza”, è stata spesso in aperto contrasto con il “Diritto Divino” che stava alla base delle monarchie, ma anche in contrasto con l’idea che il “pontefice”, (costruttore di ponti), possa fungere da intermediario tra Dio e l’uomo.
In definitiva La Chiesa Cattolica e la Massoneria sono due mondi inconciliabili, anche se alcune persone pur facendo parte della Massoneria si professano Cattolici praticanti.
La Chiesa Cattolica ha una dottrina molto precisa, mentre per la Massoneria la morale non è legata a nessun credo religioso in particolare.

YURI LEVERATTO
Copyright 2013

(1) webgrafia: www.vatican.va

mercoledì 12 novembre 2014

Il simbolismo messianico nel processo esplorativo di Cristoforo Colombo




Genova e Firenze: due grandi capitali rinascimentali. Genova, la superba, dominatrice dei mari e sede di banche poderose. Firenze, il centro finanziario mondiale, al vertice del quale vi erano i Medici, incontrastati capitalisti del XV secolo.
Genova diede i natali a Cristoforo Colombo, il navigante del Mare Oceano, che si considerava il nuovo Messia, portatore della Fede nel Nuovo Mondo.
A Firenze nacque invece Amerigo Vespucci, il viaggiatore, l’attento osservatore, il cosmografo.
Questi due grandi italiani, ai quali è legata la Storia del Nuovo Mondo, si conobbero, a Siviglia.
E poi c’era Roma, il centro della Cristianità, con a capo un papa genovese: Giovanni Battista Cybo, Innocenzo VIII.
Il XV secolo era stato segnato da un avvenimento fondamentale.
Nel 1453 infatti, i Turchi Ottomani conquistarono Costantinopoli e islamizzarono gran parte del bacino del Mediterraneo Orientale.
Il loro controllo delle rotte marittime aveva precluso importanti possibilità di commercio a Genova e Venezia, che trafficavano già da molti anni con gli empori del Mar Nero e del Medio Oriente.
L’avanzata dell’Islam, visto come forza che si contrapponeva al Cristianesimo, si fece sentire anche nella Spagna Meridionale. Il rischio che gli islamici chiudessero il mondo occidentale in una morsa a tenaglia era reale.
Inoltre c'erano alcuni indizi di nuove terre nel Mar Oceano. La possibilità che gli islamici, siano essi Arabi o Turchi, si impadronissero dei nuovi territori era reale.
Innocenzo VII l’aveva compreso e per questo sostenne l’impresa di Cristoforo Colombo. Anche se probabilmente i due uomini non si incontrarono, Innocenzo VIII patrocinò l’impresa, sia per quanto riguarda il finanziamento della parte italiana (Giannotto Berardi era un banchiere dei Medici a loro volta imparentati con il papa), sia per quanto riguarda la parte spagnola (i due soci amministratori della Santa Hermandad erano interconnessi con il papa: Santangel era el collettore delle rendite ecclesiastiche di Aragona e Francesco Pinelli era il nipote del pontefice).
Cristoforo Colombo, che già da decenni aveva esperienze di navigazione nel Oceano Atlantico (Mare Oceano), era la persona perfetta per portare a termine il progetto di conquista di territori immensi e di evangelizzazione delle persone che ivi vivevano: gli indigeni.
Se non l’avesse fatto Cristoforo Colombo, come rappresentante della Cristianità, il progetto di conquista l’avrebbero portato a termine gli islamici, e la Storia del mondo avrebbe preso una direzione diversa.
Per Colombo il Portogallo e poi la Spagna rappresentavano i mezzi per raggiungere il suo fine: l’evangelizzazione del mondo, la vittoria finale di Cristo, e lui, che si chiamava Cristoforo (colui che porta il Cristo), si sentì illuminato ed incaricato da Dio per portare la Fede nel Nuovo Mondo.
La sua strana firma cabalistica (foto principale), è un chiaro esempio di colui che si credeva il secondo Messia:

S
S  A  S
X  M  Y
Xpo ferens

Che fu interpretata così:

Sono
Servo dell’Altissimo Salvatore
Cristo, Figlio di Maria,
portatore di Cristo

Il fatto poi che Colombo fosse interessato a trovare grandi quantità d’oro è interconnesso allo scopo finale. Solo con grandi quantità d’oro sarebbe stato possibile pagare eserciti bene armati in modo da sconfiggere gli islamici e riconquistare il Santo Sepolcro.
Quelle immense quantità d’oro e argento furono però utilizzate da Carlo V e dai suoi sucessori in guerre interne europee.
Colombo aveva letto “Il Milione” di Marco Polo. Era convinto di poter giungere nel Catai e forse fondare insieme ai Cinesi, un’alleanza contro l’Islam. I suoi piani però si scontrarono con la sua mente, ancorata al Medio Evo.
Il suo errore fondamentale, aver sottovalutato l’estensione reale della circonferenza terrestre, lo portò a credere di essere giunto presso il Catai, quando invece ne era distante migliaia di chilometri.
Le isole da lui scoperte furono battezzate con nomi inneggianti alla Bibbia, al Cristo o al patrocinatore del progetto, Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo).
E così l’isola dove attraccarono le caravelle fu battezzata San Salvador (Guanahani); Cuba fu battezzata inicialmente Juana (Giovanna in spagnolo, in onore di San Giovanni o di Giovanni Battista Cybo?), Portorico fu anch’essa battezzata San Juan (San Giovanni: la capitale di Puerto Rico ancora oggi è San Juan), e la Giamaica fu battezzata Santiago (santo che combattè gli islamici).
Nei viaggi sucessivi Colombo fu accecato dalla possibilità di raggiungere il Catai e le Indie, per compiere il suo sogno, ma le sue scoperte non furono inizialmente valorizzate. Le nuove terre infatti, erano viste quasi come un ostacolo nella corsa alle Indie per imposessarsi per primi delle rotte commerciali e del traffico delle spezie.
Anche se fu nominato “Ammiraglio del Mare Oceano”e “Vicere delle Indie”, il suo potere iniziò a svanire.
A Roma non c’era più il suo papa, Innocenzo VIII, ma un nuovo papa spagnolo: Rodrigo Borgia, Alessandro VI.
Borgia volterà le spalle a Colombo e farà esclusivamente gli interessi della Spagna (linea di Tordesillas).
La Storia gli si rivoltò contro. A quel punto era la Spagna ad averlo usato, e lui non serviva più: i suoi discendenti dovettero combattere per ottenere riconosciuti i privilegi che gli erano stati accordati.
In più c’era un altro italiano, la cui mente non era medioevale, ma moderna. Era Amerigo Vespucci: viaggiatore, osservatore attento, cosmografo, antropologo. Nei suoi appunti descrisse gli indigeni, uomini liberi i cui usi e costumi dovevano essere rispettati. Amerigo non fu spinto dal desiderio di evangelizzare, ne dalla brama di trovare enorme ricchezze.
Anche se Colombo morirà senza riconoscimenti nè onori, alla sua morte varie città si disputarono i suoi resti, e ancora oggi sono decine le città che sostengono la sua paternità.
La sua epopea fu seconda solo a quella di Gesù Cristo, nel mondo occidentale.
Il genovese trionfò, portando la Fede in Cristo nel Nuovo Mondo, anche se il processo di evangelizzazione forzata degli indigeni risultò essere uno dei più grandi shock culturali di tutti i tempi.
Anche il fiorentino trionfò, in quanto le sue attente osservazioni geografiche ed antropologiche, e la sua enorme esperienza, maturata in quattro viaggi d’esplorazione, lo portarono ad essere, prima della sua morte, l’uomo più esperto al mondo del nuovo continente.
Per questo gli fu assegnato, dal re Ferdinando, il titolo di “Piloto Mayor de Castilla”, e per questo il Nuovo Mondo sarà ricordato per sempre con il nome di: America.

YURI LEVERATTO
Copyright 2012

giovedì 16 ottobre 2014

Il problema del relativismo culturale: il caso degli infanticidi nelle comunità indigene amazzoniche


Il processo indigenista che ha portato alla valorizzazione delle culture autoctone in Sud America è iniziato quando, nel 1910, l’esploratore e “sertanista” Candido Rondon fu nominato direttore del “Servizio di protezione degli indigeni”.
In seguito, come è noto, furono demarcate ed istituite numerose terre indigene (oggi sono corca 600 per un totale di più di un milione di chilometri quadrati e un totale di circa 600.000 autoctoni), con lo scopo di preservare le culture dei nativi e proteggere gli indigeni da cercatori illegali di oro, legname pregiato, pietre preziose ecc.
A distanza di circa quarant’anni dall’inizio delle prime demarcazioni si è notato che i problemi non sono diminuiti, anzi a volte sono aumentati. L’aver separato completamente gli indigeni dai non indigeni ha favorito il crearsi di sentimenti di odio da parte dei nativi verso i brasiliani non nativi. A volte la situazione è degenerata in veri conflitti sociali come nel caso delle terre indigene Raposa Serra do Sol e Roosevelt.
Alcuni giornalisti brasiliani hanno da qualche tempo denunciato questa situazione, sostenendo che le tesi indigeniste ed ambientaliste nascondono in realtà un progetto di privatizzazione globale dell’Amazzonia brasiliana.
Secondo queste idee, a volte individuate come “ruraliste”, le demarcazioni di immense terre servirebbero per mostrare al mondo che il governo del Brasile preserva le culture dei nativi e difende i loro territorio, mentre in realtà si permetterebbe a ong estere di entrare nelle aree in questione che, con la complicità dei nativi ormai corrotti, si approprierebbero di biodiversità, oro, pietre preziose, idrocarburi e legna pregiata.
Ricordo che solo il fatto di demarcare un’area ricca di oro (come la terra indigena Yanomami, grande come il Portogallo), e la conseguente decisione di espellere tutti i cercatori d’oro illegali da quel territorio, è stata la causa diretta di un aumento del prezzo dell’oro sulle piazze di Londra e New York (1992).
Le demarcazioni di oltre 600 terre indigene hanno causato anche dibattiti sociali, in quanto gli indigeni sono stati individuati, con lo “statuto del indio” come soggetti non perseguibili dalla legge, quindi comparati a minori di età o soggetti non capaci di intendere e di volere.
In pratica sono persone che godono di uno status diverso rispetto ai normali cittadini brasiliani.
Le loro tradizioni, usanze e pratiche più ancestrali sono state rispettate, anche quando sono contrarie al senso comune o ai principi fondamentali delle società occidentali.
Mi riferisco in particolare alla pratica dell’infanticidio, in uso in alcune culture indigene amazzoniche, come quella degli Yanomami, che ancora oggi sacrificano la primogenita se femmina, secondo loro per il bene della comunità (1)(2)(3).
Secondo la teoria del relativismo culturale, sviluppata dall’ebreo tedesco Franz Boas (1858-1942), non esistono il bene e il male in senso assoluto, ma questi concetti hanno valore solo all’interno delle culture umane.
Ecco quindi che l’infanticidio per cause propiziatorie o salvifiche è tollerato, e anche per esempio la mutilazione del clitoride in alcune culture tribali africane deve essere rispettata.
Franz Boas pertanto, in contrapposizione a Edward Tylor (1832-1917), sosteneva che non si può giudicare il comportamento di una persona che agisce all’interno della sua etnia, in quanto il suo concetto di bene e di male è differente da quello di altre persone appartenenti ad altre etnie.
Secondo questo concetto, pertanto, l’essere umano sarebbe imprigionato nella sua cultura, e non si potrebbe liberare, abbracciando concetti universali di non violenza, rispetto totale per il prossimo e diritto alla vita.
Nel Brasile di oggi la polemica è accesa tra gli antropologi sostenitori del relativismo culturale e quelli che sostengono l’universalità dell’etica.
Alla base di quest’ultimo concetto vi è l’idea che al di sopra delle culture vi siano dei precetti universali, proprio perché le diverse culture umane fanno parte di un insieme maggiore, ossia la società umana nel suo complesso.
Il brasiliano Sergio Rouanet (1934), sostiene che “l’uomo non può vivere al di fuori della sua cultura, ma essa non è il suo destino, è solo un mezzo per raggiungere la libertà”.
La polemica è aperta: da una parte gli indigenisti puri che sostengono che le società dei nativi amazzonici sono “intatte”, cioè non influenzate dalla malvagità dell’ “uomo bianco”.
E’ il mito del “buon selvaggio”, cioè la teoria, peraltro confutata dalla maggioranza degli antropologi, che sostiene che gli indigeni siano buoni e non conoscano il male.
Coloro i quali sostengono questa tesi, dimenticano appunto i sacrifici umani delle società mesoamericane (maya, aztechi), ma anche quelli perpetrati dagli incas (vedi la mummia Juanita), e basicamente disconoscono il caso degli infanticidi delle culture attuali amazzoniche, o si limitano a sostenere che la cultura indigena deve essere rispettata nella sua totalità, dimenticandosi che la morte di un bambino innocente è un atto che a mio parere deve essere fermato, magari affiancando alla tribù degli psicologi in modo da rendere meno forte il distacco da tradizioni ancestrali.
Anche qui però si apre un altro dibattito: ammettendo che l’indigeno che stava compiendo quell’infanticidio non sia perseguibile dalla legge brasiliana (statuto dell’indio), è compito della società insegnarli i fondamenti dei diritti umani o si dovrebbe lasciarlo alla sua cultura (con il rischio però che commetta un altro infanticidio?)
Secondo la tesi dell’universalità dell’etica, che io condivido, vi sono invece dei precetti generici, che sono peraltro stati definiti nella “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” approvata nel 1948 alle Nazioni Unite, che a sua volta deriva dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, elaborata durante la Rivoluzione Francese.
Questi precetti, che affermano che “tutte le persone nascono libere e uguali nelle libertà e nei diritti”, e “che tutte le persone hanno diritto alla vita, alla dignità e alla sicurezza personale”, liberano l’uomo dalle sue culture ancestrali, e lo rendono portatore di diritti fondamentali che vengono situati al di sopra delle usanze tribali e culturali.
Il discorso si potrebbe ampliare: per esempio i Testimoni di Geova che sono contrari alle trasfusioni di sangue. Si sono verificati casi di famiglie aderenti a questa religione che volevano privare i loro figli malati della possibilità di ottenere una trasfusione, cosa che avrebbe causato la morte del minore. Anche in questo caso, secondo me vi è un concetto maggiore della culturalità (o in questo caso della religiosità), ed è appunto il concetto del diritto alla vita di quel minore.
Tornando all’indigenismo che è in atto in Brasile ed in altri stati dell’area amazzonica, come per esempio la Bolivia: a mio parere il concetto di universalità dell’etica deve prevalere sulle pratiche infanticide in uso in alcune tribù amazzoniche.
La Bolivia è stata recentemente trasformata da “Repubblica” a “Stato plurinazionale” ed anche il Brasile sta lentamente diventando una nazione plurietnica, con 234 popoli riconosciuti e 180 lingue differenti parlate.
Questa creazione di “nazioni” ognuna separata dall’altra, dove gli indigeni sono indottrinati nella loro cultura ma non hanno accesso ad altre concezioni di vita, e dove un capo tribù gestisce l’amministrazione di aree a volte grandi come uno stato europeo, può portare facilmente ad episodi di corruzione, mi riferisco all’entrata in questi territori di entità esterne che poi si approprieranno di biodiversità, minerali preziosi ed idrocarburi.
Coloro i quali appoggiano l’indigenismo dall’esterno, sostenendo il relativismo culturale, o proponendo un “ripensamento dei Diritti Umani”, stanno indirettamente isolando ancora di più gli indigeni, facendo credere loro di essere depositari della “vera cultura”, e li stanno indebolendo sempre più, in quanto non saranno in grado di difendersi da attacchi esterni, mentre invece saranno facilmente corrompibili.

YURI LEVERATTO
Copyright 2014

E’ possibile riprodurre questo articolo indicando chiaramente il nome dell’autore e aggiungendo un link alla fonte.

(1)http://www.humanium.org/en/infanticide/
(2)https://www.umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/case_studies/yanomamo/marriage.html
(3)http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/1555339/Girl-survived-tribes-custom-of-live-baby-burial.html

lunedì 14 luglio 2014

Origine del nome America



Dopo i primi due viaggi di Cristoforo Colombo, in Europa si discuteva su come spartire i nuovi territori. 
I portoghesi non erano soddisfatti dei precedenti trattati e pressavano il governo di Spagna per ampliare la loro zona d’influenza. Nel 1493, infatti, dopo il primo viaggio di Colombo, il papa spagnolo Alessandro VI aveva decretato, nella bolla Inter Cetera, che tutte le terre ad ovest di un meridiano a sole cento leghe (circa 470 chilometri) da Capo Verde dovevano appartenere alla Spagna, mentre quelle scoperte e conquistate ad est di quella linea, non sottoposte a domini cristiani, sarebbero dovute spettare al Portogallo. 
Il re Giovanni II del Portogallo aprì nuovi negoziati con i Re cattolici di Spagna per spostare la zona d’influenza portoghese più ad ovest, sostenendo che il nuovo meridiano si sarebbe esteso a tutta la Terra, limitando così il controllo spagnolo in Asia.
Il nuovo trattato, firmato a Tordesillas il 7 giugno 1494, divise nuovamente il mondo tra le due potenze europee lungo il meridiano nord-sud 370 leghe (1.770 chilometri) ad ovest delle isole di Capo Verde, corrispondenti al meridiano di 46 gradi. Le terre ad est di questa linea sarebbero state di proprietà del Portogallo, quelle ad ovest della Spagna. Il trattato fu poi approvato da papa Giulio II con una nuova bolla del 1506.
In quegli anni viveva a Siviglia l’italiano Amerigo Vespucci. Nato a Firenze nel 1454, fu uno dei pochi esploratori spinti da un’innata curiosità per la geografia. Neppure trentenne entrò al servizio della potente famiglia Medici come amministratore di beni e addetto alle relazioni commerciali. Nel 1491 fu inviato a Siviglia per occuparsi degli affari della famiglia fiorentina. Nella città andalusa trovò un ambiente interessante e stimolante.
La professione lo portava ad occuparsi di commercio, bolle di carico, merci e contratti, ma il suo vero interesse era per i viaggi, le terre d’oltreoceano e la gente che le abitava. Una curiosità profonda, la sua, sia antropologica che naturalistica.
Fu a Siviglia che, nei primi mesi della sua permanenza, incontrò Cristoforo Colombo. Fin da subito i due italiani ebbero un approccio diverso all’idea delle esplorazioni marittime. Entrambi erano affascinati dalle pagine del Milione di Marco Polo, ma mentre il fiorentino era stato colpito dall’incredibile varietà di popoli, usi e costumi descritti dal mercante veneziano, il genovese era ossessionato dal pensiero di giungere facilmente nelle Indie per appropriarsi d’enormi ricchezze aurifere.
I due conversarono a lungo, ma il toscano sosteneva che il viaggio verso Ovest fosse troppo lungo. Per Colombo la Terra era più piccola della realtà e secondo i suoi calcoli avrebbe potuto raggiungere l'Asia in circa 30 giorni navigando verso ovest. Vespucci invece aveva fatto stime differenti sia in seguito alla lettura del Milione sia in base agli studi di Tolomeo e Alfagrano.
Quando Colombo rientrò dal suo secondo viaggio, i regnanti di Spagna iniziarono a rendersi conto che le nuove isole scoperte si estendevano su un’enorme porzione d’oceano. Pertanto, per estendere i domini e impedire che le flotte portoghesi entrassero nella zona di loro influenza, concessero ad altri esploratori la possibilità di viaggiarvi, sia per acquisire nuove indicazioni per una rotta verso il Catai e Cipango sia per cercare oro e altri tesori. Probabilmente fu lo stesso re Ferdinando II d’Aragona a patrocinare un’impresa per verificare la reale esistenza della terraferma, tracciarne la mappa e ottenere preziose informazioni.
Una serie di elementi fanno credere che Amerigo Vespucci viaggiò per la prima volta al di là dell’Atlantico nel maggio 1497. Sebbene alcuni storici asseriscano che il suo primo viaggio ebbe luogo nel 1499, nell’esplorazione effettuata con Ojeda e il cartografo Juan de La Cosa, altri sostengono che il fiorentino sia stato il primo europeo a mettere piede sulla terraferma americana, il 24 giugno 1497. La prova della veridicità di questa seconda ipotesi deriva dalla lettura della Lettera di Amerigo Vespucci sulle isole nuovamente trovate in quattro dei suoi viaggi. In questa lettera, indirizzata nel 1504 al politico Piero Soderini, il toscano descrive la partenza effettuata dal porto di Cadice il 20 maggio 1497:

Nell’anno del Signore 1497, il giorno 20 maggio, partimmo dal porto di Cadice. La prima terra che toccammo furono le isole chiamate anticamente Afortunate, ora Gran Canarie. In quelle isole rimanemmo otto giorni e ci rifornimmo di legna, acque e viveri. Quindi iniziammo a navigare verso occidente, con un viaggio cosí felice, che in ventisette giorni giungemmo in una terra che credemmo fosse continente, distante dalle isole Canarie circa mille leghe. Quello che è certo, è che eravamo a settantacinque gradi all’occidente di Gran Canaria e che il polo settentrionale si elevava sedici gradi sopra l’orizzonte de quelle terre.

Potrebbero aver guidato questa spedizione Vicente Yanez Pinzon o l’intrepido sivigliano Juan Diaz de Solis, capitano esperto nelle navigazioni oceaniche che anni dopo fu vittima di un feroce attacco indigeno nel litorale del Rio de la Plata. In ogni caso, Vespucci annotò nella sua Lettera d’aver toccato terra 16 gradi sopra l'Equatore e 75 gradi a ovest di Gran Canaria. Ciò nonostante, il luogo dello sbarco del suo primo viaggio ha provocato accesi dibattiti. Alcuni storiografi affermano che sia giunto in Honduras; altri invece, leggendo in modo più approfondito la Lettera, ritengono che toccò terra nell'attuale costa caraibica colombiana. Da quel luogo, raggiunto il 24 giugno 1497, la spedizione deve essersi diretta verso nord fino a raggiungere il “Cabo de la Vela”.
Vespucci raccontò con dovizia di particolari usi e costumi dei popoli autoctoni, riportando ad esempio l’uso delle amache, sconosciute agli europei. Queste relazioni fanno pensare all’etnia Wayúu. Ecco l’incontro con questi popoli in un passo della testimonianza della meravigliosa avventura del fiorentino:

All’alba del giorno dopo, guardando dalle navi, osservammo una moltitudine di indigeni nella spiaggia che camminavano con i loro bambini. Quando ci avvicinammo alla costa molti di loro si tuffarono in mare e nuotarono fino alla nave. Alcuni salirono in coperta, ci diedero il benvenuto nelle loro terre e si mischiarono tra di noi mostrando confidenza e serenità come se ci fossimo conosciuti da sempre. Questo incontro ci riempì di giubilo e felicità.

Narrò anche, in un curioso passaggio, i costumi sessuali e le caratteristiche fisiche delle donne indigene:

I nativi del luogo sono poco gelosi, però lussuriosi all’estremo, in special modo le donne, i cui artifici per soddisfare le loro insaziabili leggerezze non riporto, per non offendere il pudore. Hanno un corpo meraviglioso, elegante, ben proporzionato. È molto raro vedere rughe nel seno di una donna, anche dopo il parto, né nel ventre, né nelle parti carnose. Tutte si conservano come se mai avessero partorito.

Un altro indizio che testimonia la presenza del fiorentino in questo viaggio è la descrizione dell’ingresso di una laguna in cui viveva un popolo che abitava in casupole costruite sull'acqua, come a Venezia.

E seguendo da lí sempre la costa, con varie e diverse navigazioni e trattando in tutto questo tempo con molti e diversi popoli di quelle terre, infine, dopo alcuni giorni, giungemmo ad un certo porto nel quale Dio volle liberarci di grandi pericoli. Entrammo in una baia e scoprimmo un villaggio a modo di città, collocato sopra le acque come Venezia, nel quale vi erano venti grandi case, non distanti tra loro, costruite e fondate sopra robusti pali. Davanti agli usci di codeste case vi erano come dei ponti levatoi, per i quali si passava da una all’altra, come se fossero tutte unite.

Il nome “Venezia” fu usato successivamente, nel vezzeggiativo “Venezuela”, per denominare l’enorme territorio che stava al di là di quella laguna. La flotta, sempre in base al resoconto del toscano, giunse poi, nell'agosto 1498 fino a Coquibacoa e al golfo di Paria. Vespucci raccontò che le navi si diressero quindi nuovamente verso il mare aperto, passando davanti a numerose isole; ne descrisse una chiamata Iti, che non corrisponde però a Haiti.
Sull'itinerario seguito nel viaggio di ritorno vi sono state numerose interpretazioni. Si presume che i navigatori costeggiarono le terre centro-americane ed entrarono nell’Oceano Atlantico passando tra l’isola di Cuba e la penisola della Florida. La mappa disegnata nel 1500 dal pilota e cartografo Juan de la Cosa testimonia la veridicità di quest’impresa. Nella cartina furono tracciate le coste americane con discreta precisione e Cuba venne disegnata come un’isola, staccata dal continente, mentre fino ad allora si credeva fosse parte del Catai e pertanto unita al supposto continente asiatico. Siccome nel successivo viaggio d’esplorazione del 1499 non vi è traccia di una rotta tra Cuba e la Florida, e nemmeno nei primi tre viaggi di Colombo, è verosimile che qualcuno intraprese questa rotta precedentemente, appunto nel 1497. Tutto ciò fa pensare che Juan de la Cosa partecipò alla spedizione, tracciò la mappa delle coste americane, individuò Cuba, che aveva già visto viaggiando nelle due prime imprese di Colombo, navigò tra di essa e la Florida, rendendosi conto della sua insularità, e la rappresentò in seguito come un’isola, come è nella realtà. Inoltre, nella sua rappresentazione cartografica c’è una piccola isola situata a nord di Cuba chiamata Iti, forse una delle attuali Bahamas, e anche questo particolare fa credere che il viaggio sia realmente avvenuto.
Secondo la sua Lettera pertanto, e in base alla mappa di Juan de la Cosa, Vespucci fu il primo europeo a conoscere e descrivere il nuovo continente nel giugno del 1497. La flotta rientrò a Cadice il 15 ottobre dell’anno successivo.
Al ritorno dal suo primo viaggio Amerigo Vespucci conobbe Alonso de Ojeda, capitano di lungo corso che prese parte alla seconda spedizione di Colombo.
Ojeda restò a La Española fino al 1496 e partecipò alla battaglia della Vega Real, che vide 400 spagnoli avere la meglio su un esercito di 10.000 isolani. Fu il primo vero conflitto tra europei e amerindi. Gli iberici avevano le spade di ferro e gli archibugi, antenati del fucile che causavano la morte da lontano, e avanzavano a cavallo, incutendo terrore negli indigeni, che credevano quasi di confrontarsi con semidei.
Quando Ojeda rientrò a Siviglia organizzò un viaggio che aveva come scopo l’esplorazione della terraferma. Nei primi mesi del 1499 contattò Juan de la Cosa e gli propose di partecipare all’avventura. Il cantabrico accettò e anche Vespucci fu coinvolto nell’impresa. In totale le navi furono tre, di cui due armate dai fiorentini.
Partirono il 18 maggio 1499 dal porto di Santa Catarina, vicino a Cadice. Dopo aver toccato le isole Canarie fecero rotta a sud-ovest, non verso La Española ma in direzione della terraferma.
Ojeda era convinto che il favoloso regno del Catai fosse più a sud di quel che pensasse Colombo, e credeva di riuscire a trovarlo prima dell’ammiraglio genovese. Nei suoi discorsi imbevuti di brama di potere e cieca avidità pensava di potersi impossessare facilmente di quei regni asiatici e riuscire dove l’Ammiraglio aveva fallito. Il fiorentino e il cantabrico lo ascoltavano perplessi, in quanto la loro visione del mondo, più moderna e attenta alla geografia, metteva in luce molte più difficoltà per raggiungere le Indie.
Avvistarono terra dopo 24 giorni di mare e approdarono nelle attuali coste della Guayana, nelle vicinanze del Rio Damerara. Navigarono poi verso nord, fino al golfo di Paria, dove visitarono alcuni villaggi tribali. Vespucci si rese presto conto di chi fosse Ojeda. Lo spagnolo pretendeva i monili d’oro dei nativi e non esitava a usare la forza per appropriarsene. Anche Juan de la Cosa non gradiva il comportamento così spavaldo e avido del comandante castigliano.
Vespucci decise di separarsi dalla nave di Ojeda e di proseguire verso sud-est. Esistono varie interpretazioni di questa decisione. Alcuni dicono che fu causata da disaccordi con il castigliano; secondo altri, essendo il toscano già esperto della costa a ovest del golfo di Paria, che aveva visitato nel primo viaggio, decise di esplorare quella a est, per lui sconosciuta. Nel suo viaggio verso sud-est, costeggiando l’attuale Guayana e il Brasile, individuò per primo l’estuario del Rio delle Amazzoni e fu colpito dal colore dell’acqua marrone e dal suo sapore dolce anche in mare fino a decine di chilometri al largo.
Nelle sue Lettere, il fiorentino descrisse la scoperta di due grandi fiumi che corrispondono probabilmente al Rio delle Amazzoni e al Parà:

Credo che questi due fiumi siano la causa dell’acqua dolce nel mare. Accordammo entrare in uno di essi e navigarvi attraverso fino ad incontrare l’occasione di visitare quelle terre e poblazioni di gente; preparate le nostre barche ed approvvigionamenti per quattro giorni con venti uomini ben armati ci mettemmo nel fiume e navigammo a forza di remi per due giorni risalendo la corrente circa diciotto leghe, avvistando molte terre. Navigando cosí per il fiume, vedemmo segnali certissimi che l’interno di quelle terre era abitato. Poi decidemmo di tornare alle caravelle che avevamo lasciato in un luogo non sicuro e cosí facemmo.

Quindi proseguì verso sud fino al Capo di San Agustin. Durante questa navigazione osservò quattro stelle, poi chiamate “la Croce del Sud”, e si rese conto che indicavano il Mezzogiorno.
In una delle sue lettere a Lorenzo di Pier Francesco de Medici, cugino di Lorenzo il Magnifiico, il fiorentino riportò i celebri versi della Divina Commedia di Dante Alighieri, che decantavano i quattro astri, inizialmente conosciuti dai greci antichi ma considerati parte della costellazione del Centauro:

Io me volsi a man destra, e puosi all’altro polo, e vidi quattro stelle non vista mai fuor ch’alla prima gente. Goder pareva il ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato sé di mirar quelle!

Vespucci ci lasciò anche una colorata e poetica descrizione della fauna che incontrò nelle terre americane:

Quello che vidi fu...tanti pappagalli e di tante diverse specie che era una meraviglia; alcuni colorati di verde, altri di uno splendido giallo limone e altri neri e ben in carne; e il canto degli altri uccelli che stavano negli alberi era cosa cosí soave e melodica, che molte volte rimanemmo ad ascoltare tale dolcezza. Gli alberi che vidi sono di tale e tanta bellezza e leggerezza che pensammo di trovarci nel paradiso terrestre...

Il navigatore toscano tornò poi verso nord, dove riconobbe le foci di un grande fiume, l’odierno Orinoco, toccò Trinidad e fece tappa nell’isola di La Española.
Contemporaneamente Alonso de Ojeda e Juan de la Cosa avevano percorso la costa nord del Venezuela, individuando l’isola di Trinidad e quella dei Giganti, così chiamata per aver osservato uomini di grande statura, che corrisponde forse all’attuale Curacao. Poi viaggiarono fino al Capo de la Vela e procedettero verso La Española. Quando vi arrivarono, con poco oro e alcuni schiavi ribelli e pericolosi, furono accolti con ostilità dai coloni dell’isola, tutti seguaci di Colombo, perché avevano viaggiato senza la sua approvazione. Il viaggio di ritorno in Spagna fu effettuato nel giugno del 1500.
Non appena rientrato in Europa, Vespucci chiese altre navi ai regnanti di Spagna per condurre esplorazioni più a sud delle terre già conosciute, ma la sua istanza non fu esaudita in quanto la rotta che voleva seguire, secondo il trattato di Tordesillas, era di competenza portoghese. I sovrani, inoltre, avevano già concesso altre navi a Ojeda, su cui riponevano più speranze di trovare immense ricchezze.
Il fiorentino si rivolse così al Portogallo. Re Manuel I gli permise di partecipare alla spedizione comandata da Gonzalo Coelho.
La flotta partì il 13 maggio 1501 da Lisbona e fece tappa sulla costa africana di Bezebeghe, l’attuale Senegal, dove venne in contatto con il convoglio di Pedro Alvarez Cabral, che stava ritornando dall’India seguendo la rotta aperta tre anni prima da Vasco de Gama. A Bezebeghe, Vespucci conobbe l’ebreo polacco Gaspar da Gama, attento osservatore dei popoli autoctoni che aveva conosciuto in Asia. Da Gama descrisse al fiorentino usi e costumi degli indiani della città di Calicut. Ascoltandolo, Vespucci iniziò a pensare che le nuove terre a ovest del Mare Oceano forse non avevano nulla a che fare con l’India, ma ancora non se convinse pienamente.
La flotta riprese quindi la navigazione con rotta verso Occidente e dopo ben 64 giorni di mare, avversati da forti burrasche, arrivò presso le coste del Brasile.
I navigatori avvistarono il promontorio di Santa Maria, il capo di San Giorgio, la penisola di Santa Croce, il fiume San Francesco e la baia de “Todos os Santos”. Poi le navi entrarono in un’insenatura meravigliosa, che venne battezzata “Rio de Janeiro”, in quanto il calendario indicava il primo gennaio 1502.
A questo punto si decise di continuare la navigazione verso sud, anche se le terre esplorate ricadevano sotto l’influenza spagnola. Nel marzo del 1502 si giunse all’estuario di un grande fiume, l’odierno Rio de la Plata, che fu nominato Rio Jordan.
Nell’aprile successivo, la flotta si fermò presso l’imboccatura di un corso d’acqua situato al cinquantaduesimo parallelo sud, che Vespucci nominò Rio Cananor.
In un passaggio di una delle sue Lettere, Vespucci descrisse quei giorni:

Navigammo fino ad incontrare che il Polo meridionale si elevava cinquantadue gradi sopra l’orizzonte, in termini che già non potevamo vedere l’Orsa maggiore né la minore. Il 3 di aprile ci fu una tormenta cosí forte che ci fece ammainare le vele, il vento era di levante con onde grandissime e aria tempestosa. Così forte era la tempesta che tutta la ciurma stava in gran temore. Le notti erano molto lunghe, quella del 7 di aprile fu di quindici ore, perché il sole stava alla fine di Ariete e in questa regione era inverno. Nel bel mezzo della tempesta avvistammo il 7 di aprile una nuova terra, che percorremmo per circa venti leghe, incontrando delle coste selvagge, e non vedemmo in essa nessun porto, né gente, credo perché il freddo era cosí intenso che nessuno della flotta poteva sopportarlo. Vedendoci in tale pericolo e tale tempesta, che appena si poteva vedere una nave dall’altra, tanto erano alte le onde, accordammo fare segnali per riunire la flotta e lasciare queste terre per rientrare verso il Portogallo. E fu una decisione molto saggia, perché se avessimo ritardato quella notte, di sicuro ci saremmo perduti tutti.

Vespucci era quasi giunto all’entrata del famoso stretto che Ferdinando Magellano percorse 18 anni più tardi. Le sue lettere furono preziose fonti d’informazione per le spedizioni successive di Diaz de Solis e di Magellano. Si racconta infatti che Magellano disse al suo equipaggio, timoroso di proseguire:
Fin qui arrivò Amerigo Vespucci, il nostro destino è di andare oltre!
Quindi i navigatori fecero rotta verso nord con l’idea di rientrare in Portogallo. Fu in una notte illuminata dalla luna, mentre le navi erano alla fonda davanti alla costa del Brasile, che Vespucci ebbe una strana sensazione.
Si convinse che quelle terre non erano isole, ma una terraferma grandissima che nulla aveva a che fare con l’Asia. Era un “mondo nuovo” e nuovi erano gli animali, la vegetazione e gli indigeni, i cui usi e costumi non avevano eguali nel mondo conosciuto. Durante questo viaggio, inoltre, Vespucci individuò due stelle, Alpha e Beta Centauri, gli astri più vicini al nostro Sole.
Al suo rientro in Europa, nel 1502, fu quasi ignorato. I portoghesi erano delusi in quanto vedevano aprirsi un contenzioso per il possesso delle nuove terre scoperte. Gli spagnoli lo vedevano male perché aveva viaggiato su navi straniere e non aveva trovato né oro né un passaggio per il Catai o le Indie. Entrambe le Corone erano insoddisfatte perché il bottino delle ultime spedizioni era scarso.
Nessuno si rendeva conto della straordinaria importanza delle osservazioni geografiche, antropologiche e naturalistiche del fiorentino. Questi da Lisbona inviò una lettera a Lorenzo di Pier Francesco de Medici, nella quale descrisse il suo terzo viaggio.
La traduzione in latino di questa missiva fu chiamata Mundus Novus e fu pubblicata ad Augusta nel 1504 ottenendo un grande successo, tanto che ne furono prodotte undici edizioni.
Il toscano, riconoscendo di aver descritto un nuovo continente, narra:

Arrivai alla terra degli Antipodi, e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa.

Nel 1503 partecipò a un'altra impresa organizzata da Manuel I. La spedizione fu un insuccesso in quanto compromessa dal naufragio della nave ammiraglia.
Gli esploratori raggiunsero le coste del Brasile dopo aver scoperto un’isola nel mezzo dell’oceano che fu battezzata Fernando de Noronha, in onore di uno dei componenti dell’equipaggio. Non vi furono nuove scoperte né fondazioni di villaggi e il convoglio rientrò a Lisbona nel giugno del 1504.
Fu il cosmografo tedesco Martin Waldseemuller a divulgare per primo le notizie del fiorentino nella Cosmographie Introductio, pubblicata nel 1507, in Lorena.
In seguito a quest’opera le nuove terre scoperte s’iniziarono a chiamare “Americus”, o “America”, in onore delle osservazioni fatte da Vespucci. Inizialmente con il termine “America” ci si riferì solo ai territori situati al sud dell’istmo di Panama, ma negli anni successivi lo si utilizzò anche per il nord del continente.
Nel 1508 Vespucci fu nominato da re Ferdinando Piloto Mayor de Castilla, titolo che lo riconosceva come il navigatore più esperto del regno di Spagna.
Gli fu affidato il compito di selezionare e istruire i futuri piloti e cartografi, insegnando loro l’uso dell’astrolabio e la conoscenza dei venti.
Il grande esploratore morì a Siviglia nel 1512 senza lasciare discendenza e i suoi beni andarono a sua moglie, l’andalusa Maria Cerezo.

YURI LEVERATTO
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