domenica 10 giugno 2018

Le sette frasi di Gesù sulla croce


Nei Vangeli sono descritte sette frasi che Gesù pronunciò durante la sua agonia sulla croce, fino a pochi istanti prima di morire. Sono frasi molto importanti, che rivelano il reale significato della morte in croce di Gesù.
La prima frase che Gesù pronunciò è: 

“Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”.
(nel verso 23, 34 del Vangelo di Luca).

Il tema del perdono è il cardine di tutto il messaggio evangelico. Gesù ha insegnato a perdonare con l’insegnamento diretto, attraverso parabole, con azioni, ed infine ha dato il massimo esempio di perdono con la sua morte espiatoria sulla croce, il sublime atto salvifico che ha posto fine al dominio del peccato per tutti gli esseri umani di fede.
In questo caso Gesù si rivolge al Padre esortandolo a perdonare persino i propri carnefici. E’ Lui che fa il primo passo, perdonando, proprio come, nella parabola del figliol prodigo, il padre fa il primo passo per perdonare suo figlio, che aveva vissuto in modo dissoluto. 
Questa frase è il preludio del sublime atto di perdono che Gesù ha attuato spargendo il proprio sangue con la sua morte in croce. 
Secondo il Vangelo, infatti, Dio non perdona i peccati “dall’alto”, ma pagando lui stesso. Dio non ha delegato ad una sua “creatura” la sofferenza sulla croce. Dio stesso era sulla croce, dandoci il massimo esempio di umiltà, perchè amava talmente l’uomo che si è sacrificato per lui, caricando su di se tutti i peccati del mondo e rendendoci così liberi. Solo Dio inoltre, essere infinito, poteva pagare con il suo sangue per tutti i peccati del mondo, che per definizione, essendo peccati contro Dio, hanno una gravità infinita.
Analizziamo un passaggio del Nuovo Testamento dove si afferma il valore salvifico della morte in croce di Gesù, atto sublime con il quale sono stati perdonati tutti i peccati. Innanzitutto questo primo passaggio del Vangelo di Matteo (26, 27-28):

Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perchè questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. 

E’ Gesù stesso a ribadire che il suo sangue è versato per il perdono dei peccati.

La seconda frase pronunciata da Gesù sulla croce è:

«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
(nel verso 23, 43 del Vangelo di Luca)

Con questa frase Gesù sta affermando che uno dei criminali crocifissi con lui sarà salvo, otterrà quindi la vita eterna. Vediamo tutto il dialogo per poter comprendere il perchè di questa affermazione di Gesù, apparentemente inaudita. 
(Vangelo di Luca 23, 39-43):

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perchè riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

In pratica il malfattore ha riconosciuto che Gesù poteva dargli la salvezza, e quindi implicitamente ha creduto in Gesù Cristo, associandolo apertamente a Dio. Ciò è stato sufficiente a Gesù per salvarlo, ossia per dare a lui la vita eterna. Ciò prova anche che la salvezza viene dalla fede in Gesù Cristo e non dal battesimo. 

La terza frase pronunciata da Gesù sulla croce è: 

Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sè.
(Vangelo di Giovanni 19, 26-27)

Gesù vede sua madre e il discepolo da lui amato, Giovanni, che incuranti del rischio al quale andavano incontro, sono giunti fin sotto alla croce, per dargli un estremo saluto. Vogliono soffrire con lui, vogliono stare a fianco del loro amato fino all’ultimo. Gesù pensa a sua madre e l’affida a Giovanni, che da quel momento le starà vicino. 

La quarta frase pronunciata da Gesù sulla croce è: 

Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?». 
(Vangelo di Matteo 27, 46; Vangelo di Marco 15, 34)

Gesù, nella sua natura umana, si sentiva solo, abbandonato. Cita il Salmo 22, 1, dove Davide continua a confidare in Dio, anche se è stato apparentemente abbandonato. E in effetti Gesù sente il peso dei peccati infiniti che sta espiando con la sua sofferenza, con il suo sangue ed infine con la sua morte. 

La quinta frase pronunciata da Gesù sulla croce è: 

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinchè si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vangelo di Giovanni (19, 28)

Gesù, oltre ad essere vero Dio, è anche pienamente uomo. Ha sete, e affinchè si compisse la Scrittura chiese da bere. Ecco la Scrittura alla quale si riferisce: 

Salmi (69, 21):

Mi hanno messo veleno nel cibo
e quando avevo sete mi hanno dato aceto.

La sesta frase pronunciata da Gesù sulla croce è: 

Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». 
(Vangelo di Giovanni 19, 30)

La parola greca Τετέλεσται (pronuncia: tetelestai), significa “pagato totalmente”. Con questa frase Gesù ha voluto affermare di aver pagato totalmente il prezzo della nostra redenzione dal peccato. Questo fatto meraviglioso si evince anche da vari passaggi neotestamentari. Vediamone uno: 
Lettera di Tito (2, 14):

Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sè un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.

La settima e ultima frase pronunciata da Gesù sulla croce è: 

Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.
(Vangelo di Luca 23, 46)

Dopo il momento di abbandono espresso con la frase «Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?», Gesù riaquista piena fiducia nel Padre e a lui affida completamente il suo spirito. E’ un estremo atto di fede con il quale Gesù si lancia idealmente nelle braccia del Padre. 
Le sette parole di Gesù pronunciate sulla croce esprimono la più alta gloria di Dio. Infatti l’apice massimo della sua gloria, in riferimento a noi umani, si ebbe quando, dopo l’Incarnazione, Gesù Cristo morì per noi sulla croce, concedendoci così la Grazia e la possibilità di diventare figli di Dio, in modo che noi potessimo ottenere una gloria maggiore di quella che perdemmo quando abbiamo peccato seguendo l’atto di Adamo. In altri termini, la più alta gloria di Dio è Gesù Cristo, e la più alta gloria di Gesù Cristo è stata la sua umiliazione e la sua morte in croce per noi.

Yuri Leveratto

venerdì 8 giugno 2018

Il valore della fede: l’esempio dei patriarchi dell’Antico Testamento. Analisi dell’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei


Nell’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei l’autore analizza il valore della fede in Dio e della vita spirituale dei credenti, fornendo esempi tratti dall’Antico Testamento. L’autore descrive uomini e donne dell’Antico Testamento che sopportarono sofferenze e privazioni enormi pur di non rinnegare la loro fede. Nel capitolo si descrivono benedizioni materiali (terra, discendenza) e spirituali (risurrezione dei morti), che i credenti ricevettero in seguito alla loro fede. I credenti dell’Antico Testamento furono giustificati perché credevano che, in un tempo futuro, Dio avrebbe inviato il Messia per espiare i loro peccati.

Vediamo i primi tre versi: 

1 La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. 2 Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. 3 Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicchè  dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile.

Nel primo verso si descrive ciò che la fede fa per noi. Attraverso la fede le cose che si sperano divengono reali. La fede, pertanto, porta il futuro nel presente e contribuisce a rendere reale ciò che è  ancora in divenire. Nel secondo verso l’autore afferma che gli antenati degli ebrei furono approvati da Dio perché ebbero fede. Con questo verso l’autore afferma indirettamente la sua appartenenza all’etnia degli ebrei.
Nel terzo verso vi è un richiamo alla creazione del mondo da parte di Dio onnipotente (Genesi 1 e Vangelo di Giovanni 1, 3). E’ la Parola, ossia il Verbo (Gesù Cristo nel suo stato pre-incarnato), che ha creato l’universo. 
Vediamo ora i versi successivi: 

4 Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni; per essa, benchè  morto, parla ancora.
5 Per fede, Enoc fu portato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché  Dio lo aveva portato via. Infatti, prima di essere portato altrove, egli fu dichiarato persona gradita a Dio. 6 Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano.
7 Per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano, preso da sacro timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede.

A partire dal quarto verso vengono descritti esempi di come alcuni personaggi dell’Antico Testamento si siano affidati alla fede in Dio, e si siano abbandonati al Signore. 
Innanzitutto notiamo che l’autore non cita Adamo ed Eva ma parte con la descrizione della fede di Abele. Adamo ed Eva, quando dovettero scegliere tra Dio e Satana, scelsero quest’ultimo. Ciò non significa, comunque, che dopo la caduta, essi non tornarono a Dio e non si pentirono del loro atto. 
Abele offrì un sacrificio migliore di quello di Caino. Mentre Caino infatti offrì a Dio frutta e verdura, Abele si privò di un prezioso agnello, che sacrificò all’Eterno. Pertanto dimostrò di amare Dio più di ogni altra cosa. Abele pertanto dimostrò la propria buona fede accostandosi a Dio mediante il sangue di un sacrificio animale. 
Nel quinto verso si descrive Enoc, il settimo patriarca antidiluviano, discendente di Set, il terzo figlio di Adamo. Nella Genesi si descrive che Enoc generò Matusalemme, e quindi dopo molti anni, “camminò con Dio”, quindi fu portato in cielo prima di morire. Enoc fu quindi assunto in cielo senza sperimentare la morte fisica. La sua fede in Dio era tale che il Creatore decise di portarlo con sè, non permettendo quindi che la morte avesse potere su di lui. Enoc quindi fu gradito a Dio. 
Nel sesto verso l’autore ribadisce che senza fede è impossibile essere graditi a Dio. Bisogna quindi credere che Dio esaudirà le sue promesse.
Nel settimo verso si descrive Noè, il decimo patriarca antidiluviano. Egli credeva all’avvertimento di Dio, che aveva minacciato di distruggere il mondo con un diluvio (Genesi 6, 17). Noè  credette, costruì un’arca e la sua fede fu ricompensata. Mentre il mondo fu condannato per la sua condotta empia, Noè e la sua famiglia si salvarono e furono giustificati per mezzo della fede. Dal settimo verso si evince anche che non importa la consistenza numerica dei credenti, ma importa solo la loro fede. Noè e la sua famiglia (sua moglie, i suoi tre figli con le rispettive mogli), erano un’assoluta minoranza rispetto agli abitanti antidiluviani della terra, eppure si salvarono, e si salvarono per fede in Dio. 

Vediamo ora i versi successivi, riferiti ad Abramo: 

8 Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
9 Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10 Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
11 Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché  ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. 12 Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
13 Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14 Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. 15 Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16 ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
17 Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, 18 del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. 19 Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.

Abramo viveva ad Ur dei Caldei, una città della Mesopotamia (odierno Irak). 
Dio gli si manifestò e gli ordinò di mettersi in cammino. Abraamo, guidato solo dalla fede, lasciò la sua casa e la sua patria e si mise in viaggio senza sapere dove andava. Dio si rivolse ad Abraamo possibilmente perché egli era l’uomo con più fede in Dio al mondo. Vediamo due passaggi della Genesi che provano che Abraamo credeva in Dio: 

Abraamo credeva a YHWH, al Dio unico che lo aveva chiamato, Genesi (15, 6): 

Ed egli credette all'Eterno, che glielo mise in conto di giustizia.

Abraamo credeva in un Dio onnipotente, Genesi (17, 1):

Quando Abramo ebbe novantanove anni, l'Eterno gli apparve e gli disse: «Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza, e sii integro; 

Dio aveva promesso ad Abraamo la terra di Canaan in eredità. Malgrado Abraamo avesse ricevuto in eredità da Dio quella terra, quando vi giunse non prese una dimora fissa, ma si accontentò di vivere in tende, simbolo di pellegrinaggio e di esilio, e visse a Canaan come in una terra straniera. 
Abraamo infatti aspettava la città che ha fondamenta divine, il cui costruttore è  Dio. 
Sara, la moglie di Abraamo ebbe fede, e le fu concesso di concepire un figlio quando aveva novant’anni. Anche Abraamo era molto anziano quando nacque Isacco, (aveva novantanove anni), ma la sua fede era granitica.
Attraverso Isacco Abraamo diventò quindi padre di una numerosa discendenza spirituale, i veri credenti delle epoche successive. 
Nel tredicesimo verso si ribadisce che tutti i patriarchi sono morti senza poter vedere l’adempimento delle promesse divine. Per esempio i profeti non poterono vedere il Messia. Però morirono avendo fede che Dio avrebbe inviato il Messia il quale avrebbe espiato i loro peccati, e per ciò morirono giustificati. Essi pertanto vissero come forestieri, che non aspirano a una patria terrena, ma celeste. Gran parte delle promesse fatte al popolo di Israele si riferivano a benedizioni materiali e terrene. Tuttavia i patriarchi e i profeti avevano anche una speranza celeste, in un’epoca di luce futura, che permetteva loro di considerare questo mondo come fosse un paese straniero. 
A partire dal diciassettesimo verso l’autore descrive l’episodio biblico nel quale Dio mette alla prova la fede di Abraamo. Dio gli chiese una cosa terribile, di immolare il suo unico figlio, Isacco, su un altare. Ma Abraamo non titubò. Credette fermamente nel Signore e non obiettò il motivo del perché  gli venne chiesta una cosa tanto difficile. Dio gli aveva promesso un’innumerevole progenie e Isacco era il suo figlio unigenito. Come avrebbe fatto Dio a mantenere la promessa sulla progenie se il suo unico figlio sarebbe morto? Ma Abraamo conosceva la promessa di Dio e niente altro per lui contava. Abraamo sapeva che Dio è  onnipotente e avrebbe potuto risucitare suo figlio Isacco. Come sappiamo Dio fermò Abraamo quando era sul punto di eseguire l’ordine impartitogli. In pratica Dio verificò che Abraamo aveva una fede assoluta in lui e pertanto lo fermò: il sacrificio di Isacco non era più necessario. 
Vediamo ora i versi successivi dove si descrivono i discendenti di Isacco: 

20 Per fede, Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù anche in vista di beni futuri.
21 Per fede, Giacobbe, morente, benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e si prostrò, appoggiandosi sull’estremità del bastone.
22 Per fede, Giuseppe, alla fine della vita, si ricordò dell’esodo dei figli d’Israele e diede disposizioni circa le proprie ossa.

Nel ventesimo verso si descrive che Isacco per fede invocò benedizioni future sui suoi figli Giacobbe ed Esaù. Sappiamo che il Signore (Genesi 25, 23), aveva annunciato a Rebecca che il maggiore (Esaù) avrebbe servito il minore (Giacobbe). Sappiamo anche che Esaù era il figlio prediletto di Isacco e come tale avrebbe avuto diritto alla parte migliore dell’eredità paterna. Rebecca e Giacobbe ingannarono Isacco, inducendolo a pronunciare su Giacobbe la benedizione maggiore. Quando Isacco si rese conto dell’inganno ebbe un fremito d’ira, ma poi si ricordò dell’annuncio del Signore e quindi acconsentì alla volontà divina. Quindi Isacco ebbe fede nel Signore e comprese che la volontà divina doveva prevalere sulla sua personale predilezione per Esaù. 
Nel ventunesimo verso l’autore descrive la benedizione che Giacobbe diede ai figli di Giuseppe, Efraim e Manasse. In realtà Giacobbe all’atto della benedizione incrociò le mani in modo che la benedizione del maggiore ricadesse sul minore, Efraim. Tale era stato l’ordine stabilito dal Signore. 
Nel ventiduesimo verso si descrive la fede di Giuseppe, che era forte anche quando stava per morire. Egli credette alla promessa di Dio che avrebbe liberato il popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto. La fede gli consentì di visualizzare l’esodo. Tale evento era così vivo nella sua mente che diede istruzioni ai suoi figli di portare con loro le sue ossa in modo che fossero seppellite in Canaan. Pertanto anche se Giuseppe era circondato dallo splendore dell’Egitto, il suo cuore era insieme al suo popolo nella benedizione futura. 
Vediamo i versi successivi, che si riferiscono al patriarca e profeta Mosè : 

23 Per fede, Mosè, appena nato, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché  videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re.
24 Per fede, Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, 25 preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. 26 Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa.
27 Per fede, egli lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; infatti rimase saldo, come se vedesse l’invisibile.
28 Per fede, egli celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue, perché  colui che sterminava i primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti.
29 Per fede, essi passarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta. Quando gli Egiziani tentarono di farlo, vi furono inghiottiti.

Nel ventitreesimo verso si fa riferimento alla fede dei genitori di Mosè e non alla fede del patriarca. “Videro che il bambino era bello”. Questa frase si riferisce a qualcosa di più della bellezza esteriore. Essi capirono che il bambino era stato scelto da Dio. La loro fede nel compimento dei disegni di Dio diede loro la forza di contravvenire l’editto del re e tenere il bambino nascosto per tre mesi. 
Nei versi ventiquattresimo e venticinquesimo l’autore descrive che Mosè, sebbene cresciuto negli agi del palazzo d’Egitto, imparò che “ciò che da riposo non è  il possesso dei beni, ma la rinuncia ad essi” (J. Gregory Mantle).
Mosè era figlio adottivo della figlia del Faraone. Una posizione aristocratica di assoluto rilievo che avrebbe potuto aprirgli le porte per essere un giorno lui stesso il faraone. Ma egli apparteneva al popolo di Dio e pertanto dichiarò la sua vera origine ebrea, rinunciando agli agi e ai vantaggi che la sua posizione gli permetteva e che lo avrebbero condotto al peccato contro Dio.
Nel ventiseiesimo verso si descrive che egli preferì essere disprezzato dagli egiziani in quanto credeva nell’avvento futuro del Messia, piuttosto che dedicarsi ai tesori dell’Egitto. E ciò perché  Mosè  aveva lo sguardo fisso nell’eternità, e non solo nella vita terrena. 
Nel ventisettesimo verso si descrive che Mosè rinnegò il re dell’Egitto e, fortificato nella fede, lasciò l’Egitto, senza timore del faraone. Inoltre nel verso ventottesimo verso si descrive che Mosè ripudiò la religione d’Egitto, e istituì la Pasqua e la cerimonia dell’aspersione del sangue in modo che l’angelo del Signore non sterminasse i primogeniti degli Israeliti. Per fede, pertanto Mosè era sicuro che la salvezza dovesse realizzarsi per mezzo del sangue dell’Agnello (Gesù Cristo) e non per mezzo delle acque del Nilo. Nel ventinovesimo verso si descrive che anche il passaggio del Mar Rosso fu un atto di fede. Gli ebrei credevano che Dio li avrebbe aiutati e avrebbe permesso loro di attraversare il Mar Rosso. Ed effettivamente il Mar Rosso si aprì (Esodo 14, 21). Ma gli egiziani che li seguivano furono inghiottiti dalle acque. Quindi il Mar Rosso, mentre fu un sentiero di liberazione per Israele, si rivelò una feroce condanna per gli Egiziani. 
Vediamo ora i passaggi successivi: 

30 Per fede, caddero le mura di Gerico, dopo che ne avevano fatto il giro per sette giorni.
31 Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché  aveva accolto con benevolenza gli esploratori.
32 E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; 33 per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, 34 spensero la violenza del fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. 35 Alcune donne riebbero, per risurrezione, i loro morti. Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. 36 Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. 37 Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – 38 di loro il mondo non era degno! –, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra.
39 Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: 40 Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinchè  essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

La città di Gerico con le sue alte mura fu il primo obiettivo militare della conquista di Canaan da parte del popolo di Israele. Anche se le forze degli ebrei erano inferiori, Dio ordinò loro di accerchiare per sette giorni la città e, il settimo giorno, di marciarvi attorno sette volte. Nel momento in cui i sacerdoti avrebbero fatto squillare le tromba il popolo avrebbe dovuto gridare e le mura sarebbero crollate. Il popolo ebbe fede e le mura crollarono (Giosuè  6). 
Nel trentunesimo verso si sottolinea come Raab, la meretrice, decise di stare dalla parte del Signore, abbandonando gli idoli, anche se ciò significava il tradimento verso la sua gente. 
Nel verso trentaduesimo l’autore fa una domanda retorica e riconosce che se dovesse descrivere la fede di altri patriarchi come Gedeone, Barak, Sansone, Iefte, Davide e Samuele o i profeti, gli mancherebbe il tempo, e la trattazione si rivelerebbe troppo lunga. Nel trentatreesimo e trantaquattresimo verso l’autore descrive però le loro imprese conseguite attraverso la fede: “conquistarono regni” (Giosuè , i giudici e Davide); “praticarono la giustizia” (sovrani come Salomone, Ezechia e Giosia sono ricordati per i loro regni caratterizzati dalla giustizia); “ottennero ciò che era stato promesso” (la terra di Canaan, a dimostrazione della veridicità della parola di Dio); “chiusero le fauci dei leoni” (Daniele 6, 22, ma anche Sansone in Giudici 14, 5 e Davide in 1 Samuele 17, 34); “spensero la violenza del fuoco” (la fornace ardente consumò solo le funi dei tre ebrei in Daniele 3, 25); “scamparono al taglio della spada” (Davide sfuggì agli attacchi di Saul; Elia scampò l’odio di Iezebel; Eliseo riuscì a fuggire dal re di Siria); “trassero vigore dalla loro debolezza” (per esempio Eud era mancino, ma trafisse il re di Moab; Gedeone si servì di brocche d’argilla per sconfiggere i madianiti), ciò significa che Dio ha scelto i deboli per svergognare i forti, come scritto nella Prima Lettera ai Corinzi (1, 27): 

Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 

“divennero forti in guerra” (la fede dotò questi uomini di forza soprannaturale); “respinsero invasioni di stranieri” (anche se spesso numericamente inferiori, gli eserciti di Israele riportarono la vittoria causando lo sgomento dei nemici). 
Nel verso trentacinquesimo si descrive che per fede alcune donne ricevettero in vita i loro morti per risurrezione (per esempio la vedova di Sarepta 1 Re 17, 22-23; la sunamita in 2 Re 4, 34). Sempre nel trentacinquesimo verso si descrive che la fede ha anche un altro volto. Come molti attuarono imprese epiche per fede, altri patirono sofferenze per non rinnegare la fede. Questi ultimi avrebbero potuto rinnegare il Signore ottenendo la libertà, ma preferirono morire per essere risuscitati nella gloria celeste che vivere come traditori del Signore. 
Nel trentaseiesimo verso si descrive che molti furono scherniti, flagellati e torturati in prigione. Geremia per esempio sopportò tutte queste forme di punizione (Geremia 20, 1-6; Geremia 37, 15). Nel verso trentasettesimo continua la descrizione di come vari ebrei patirono sofferenze pur di non rinnegare la loro fede nel Signore. “Furono lapidati” (Gesù stesso descrive come i padri dei farisei uccisero Zaccaria fra il santuario e l’altare (Vangelo di Matteo 23, 35). “segati” (così, secondo la tradizione, Manasse avrebbe ucciso Isaia); “furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati” (il profeta Uria fu ucciso per aver proclamato il messaggio di Dio al re Ioiachim, in Geremia 26, 23). 
Nel trentottesimo verso l’autore sostiene che il mondo non era degno di queste persone. Essi infatti andavano errando per deserti, montagne e caverne. Erano quindi separati dal mondo, ma non rinnegarono il loro Signore. 
Nel trentanovesimo e quarantesimo verso l’autore descrive che Dio ha reso testimonianza a questi patriarchi e profeti dell’Antico Testamento, ma tuttavia essi morirono senza vedere l’adempimento di ciò che gli era stato promesso. Non poterono vedere il Messia. 
Per noi credenti in Cristo, invece, e qui l’autore si riferisce all’età della Grazia, Dio riservò qualcosa di meglio. Dio aveva stabilito che essi non giungessero alla perfezione senza di noi. 
Nel quarantesimo verso l’autore vuole significare che i credenti dell’Antico Testamento non potranno gustare la perfezione del corpo glorificato finché non saremo stati tutti rapiti in cielo per incontrare il Signore come descritto nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (4, 13-18). 
Pertanto i credenti dell’Antico Testamento furono giustificati perché credevano che, in un tempo futuro, Dio avrebbe inviato il Messia per espiare i loro peccati. I giusti di oggi guardano al passato, credendo che Dio, nella persona di Gesù Cristo, abbia già espiato i nostri peccati sulla croce. 
Pertanto la Luce eterna di Cristo ha illuminato tutti gli uomini, da sempre, sia quelli che vissero nel passato, sia quelli che vivono ora e vivranno nel futuro. Quelli che prima di Cristo hanno avuto fede in Dio e si sono abbandonati alla sua volontà, credendo per fede che i loro peccati sarebbero stati espiati, hanno ottenuto la giustificazione e sono poi stati salvati da Cristo con la sua morte vicaria.

Yuri Leveratto

Bibliografia: Commentario biblico del discepolo, di William McDonald

sabato 2 giugno 2018

Gesù Cristo è sacerdote eterno


Nella Lettera agli Ebrei Gesù viene denominato “sommo sacerdote”. Vediamo a tale proposito questi due passaggi: 

(2, 17): 

Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.

(4, 14): 

Dunque, poichè  abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.

La parola sacerdote (colui che da il sacro, colui che svela il sacro), si riferisce ad una persona santa che porta a termine un sacrificio gradito a Dio. 
Durante la sua missione terrena Gesù non fu individuato dai suoi seguaci come sacerdote. Innazitutto perchè  non apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi, ma a quella di Giuda, inoltre perchè la sua attività pubblica era assimilabile a quella di antichi profeti che realizzavano miracoli, come Elia o Eliseo, o a quella di maestri itineranti, infatti veniva chiamato maestro, rabbi. 
Però analizzando la vita di Gesù, ci si rende conto che lui agì come sommo sacerdote. Innanzitutto attuò come mediatore tra Dio e gli uomini, facendo conoscere il Padre agli uomini. In secondo luogo Gesù offrì se stesso come espiazione dei peccati, realizando così il sacrificio finale e perfetto, con la sua morte in croce. 
Inizialmente la sua morte in croce non poteva essere compresa e considerata come sacrificio per i peccati, ma dopo la Risurrezione i suoi seguaci iniziarono a cogliere il sottile disegno divino, con il quale il Messia si è  caricato di tutte le iniquità (Libro di Isaia 53, 1-2). 
In seguito l’autore della Lettera agli Ebrei ha individuato Gesù come sacerdote eterno, che ha compiuto il sacrificio finale e perfetto. 

La prima volta che si trova la parola “sacerdote” nella Bibbia è nel capitolo quattordicesimo della Genesi. Abramo entrò  in guerra per riscattare suo nipote Lot, che era stato catturato dall’esercito di Elam. Quando tornò  dalla guerra, Abramo fu ricevuto da Melchisedek, che era il re di Salem e sacerdote del Dio Altissimo. 
Melchisedek, il cui nome significa “re di giustizia”, benedisse Abramo e benedisse il Dio Altissimo, offrendogli pane e vino. Abramo riconobbe la superiorità di Melchisedek offrendogli la decima del bottino. 
Da questo passaggio pertanto si evince che il primo sacerdote del Dio Altissimo non era un ebreo, ma bensì un cananeo, il re di Salem, Melchisedek.
Vari anni dopo, Levi, il bisnipote di Abramo, fu eletto da Dio per essere il padre della tribù sacerdotale. I sacerdoti del tempio dovevano appartenere alla tribù dei leviti e Aronne, il fratello di Mosè, fu il capostipite dei sacerdoti del tempio. 
I sacerdoti levitici erano responsabili di intercedere tra Dio e il Popolo, attraverso l’offerta di molti sacrifici che erano richiesti dalla Legge. Il sommo sacerdote entrava una volta all’anno nel luogo santo, nel giorno dell’Espiazione, per collocare il sangue del sacrificio nell’arca del patto. A questo proposito vediamo questo passaggio della Lettera agli Ebrei (9, 6-7):

6 Disposte in tal modo le cose, nella prima tenda entrano sempre i sacerdoti per celebrare il culto; 7 nella seconda invece entra solamente il sommo sacerdote, una volta all’anno, e non senza portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e per quanto commesso dal popolo per ignoranza.

Attraverso questi sacrifici i peccati del popolo erano temporaneamente coperti, in attesa che venisse il Messia con lo scopo di espiarli completamente con la sua morte salvifica. 
Gesù Cristo è il sommo sacerdote in riferimento a questi due tipi di sacerdozio. 
Come Melchisedek, Gesù è ordinato sacerdote al di fuori del sacerdozio levitico. 
Come i sacerdoti levitici Gesù offrì un sacrificio per soddisfare la Legge di Dio. 
La differenza con i sacrifici dei sacerdoti levitici è che Gesù offrì se stesso, come sacrificio finale e perfetto, per l’espiazione dei nostri peccati. Vediamo a tale proposito la Lettera agli Ebrei (7, 26-27): 

26 Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. 27 Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.

A differenza dei sacerdoti levitici, che dovevano continuamente offrire sacrifici per i peccati del popolo, Gesù offrì se stesso una sola volta propiziando la redenzione eterna per tutti quelli che accettano il suo sacrificio. Vediamo a tale proposito questo passaggio della Lettera agli Ebrei (9, 12): 

12 Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.

Pertanto nella Lettera agli Ebrei si spiega che nella Chiesa di Cristo non vi è  più bisogno di sacerdoti come nell'Antico Testamento in quanto esiste un unico sommo sacerdote, la persona di Gesù Cristo, che si è offerto al Padre una volta per tutte per espiare i peccati degli uomini.

Yuri Leveratto

Immagine: L'ultima cena, Leonardo da Vinci.


venerdì 1 giugno 2018

La preminenza di Cristo. Analisi del primo capitolo della Lettera agli Ebrei


Nel primo capitolo della Lettera agli Ebrei si descrive la preminenza di Cristo sia sui profeti che sugli angeli. Vediamo i primi due versi: 

1 Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, 2 ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.

I profeti erano portavoce di Dio, e da lui ispirati, tuttavia il loro ministero fu parziale. Ad ognuno di essi fu affidata una parte della rivelazione. La definitiva rivelazione è stata data dal “Figlio”, ossia il Figlio di Dio, il Messia, Gesù Cristo. E’ Lui che ha rivelato pienamente il Padre, vediamo a tale proposito due versi del Vangelo di Giovanni: 

(1, 18):

“Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere”.

(14, 9): 

“Chi ha visto me ha visto il Padre”

Gesù quindi non parlava per conto di Dio, ma in qualità di Dio. 
Nel secondo verso vi è scritto che Il Figlio è “erede di tutte le cose”, cio’ significa che è infinitamente superiore ai profeti, e tutte le cose, quindi l’universo intero, gli appartengono e presto Lui vi regnerà. Inoltre Cristo “ha fatto anche il mondo”, è il Creatore di tutte le cose. Questo verso è confermato anche dal terzo verso del Vangelo di Giovanni: 

tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

Vediamo ora il terzo e quarto verso della Lettera agli Ebrei: 

3 Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, 4 divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Nel terzo verso si afferma che Cristo è irradiazione della gloria del Padre e impronta della sua sostanza. In pratica tutta le perfezioni e le glorie del Padre sono presenti anche in Cristo. 
Il Figlio, essendo impronta della sostanza del Padre, è la perfetta rappresentazione del Padre. Essendo Dio, il Figlio, rivela all’uomo l’esatta natura di Dio Padre, con le sue parole e le sue opere. Il Figlio e il Padre sono consustanziali da sempre. Il Figlio inoltre sostiene “tutto” con la sua parola. 
Sempre nel terzo verso vi è scritto: “Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati”. Qui l’autore della Lettera descrive il motivo principale per il quale il Verbo si è fatto carne, espiare tutti i peccati. E’ meraviglioso pensare che Dio ha deciso di abbassarsi, di umiliarsi fino a farsi uomo, e una volta fattosi uomo nella persona di Gesù si è fatto servo, e ha accettato umilmente il suo destino, quello di morire sulla croce con lo scopo di espiare tutti i peccati. Ora il Figlio è “seduto” alla destra della maestà nell’alto dei cieli. Sedersi alla destra della maestà è una posizione di onore e privilegio. Dio Padre ha sommamente esaltato Cristo per il suo glorioso trionfo. 

Nei versi successivi l’autore della Lettera dimostra che Cristo è superiore agli angeli. Vediamo i versi (5-9):

5Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto:
Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato?
E ancora:
Io sarò per lui padre
ed egli sarà per me figlio?
6Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice:
Lo adorino tutti gli angeli di Dio.
7Mentre degli angeli dice:
Egli fa i suoi angeli simili al vento,
e i suoi ministri come fiamma di fuoco,
8al Figlio invece dice:
Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli;
E lo scettro del tuo regno è scettro di equità;
9hai amato la giustizia e odiato l’iniquità,
perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato
con olio di esultanza, a preferenza dei tuoi compagni.

Sappiamo che i giudei tenevano in gran conto il ministero degli angeli, il cui significato etimologico è “messaggero”. Tutti gli angeli furono creati in uno stato santo, però alcuni seguirono Satana nella sua ribellione contro Dio e si convertirono in demoni. Gli angeli sono comunque esseri creati che devono rispondere al Creatore per i loro atti. L’autore della Lettera agli Ebrei riporta il Salmo (2, 7): “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”, dimostrando la superiorità di Cristo rispetto agli angeli, in quanto Dio non ha mai chiamato “figlio” nessun angelo. Riportando il Salmo (2, 7), inoltre, l’autore della Lettera agli Ebrei riconosce sia che Cristo è Figlio unigenito dall’eternità sia che è generato nell’Incarnazione e poi nella Risurrezione. 
Anche il secondo passaggio veterotestamentario del quinto verso “Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?, è significativo. E’ tratto dal Secondo Libro di Samuele (7, 14). Anche se queste parole sembrano indicare Salomone, l’autore ha voluto riferirsi al Messia. Dio non parlò mai a nessun angelo in questo modo. 
Nel sesto verso si ribadisce che Cristo deve essere oggetto dell’adorazione degli angeli, mentre essi sono i suoi messaggeri e servitori. (Si fa un riferimento al Salmo 97, 7). 
Nel settimo verso l’autore descrive che gli angeli sono servitori (come il vento e il fuoco) e pertanto sono subordinati al Figlio. (E’ una citazione del Salmo 104, 4). 
Dal verso ottavo in avanti viene descritta la gloria del Figlio ribadendo la sua assoluta superiorità sugli angeli. Innanzitutto si cita il Salmo (45, 6), dove Dio Padre acclama il Messia con queste parole. “il tuo trono, o Dio dura di secolo in secolo”. Quindi qui l’autore della Lettera dimostra che Dio chiama “Dio” il Messia, attribuendogli una superiorità assoluta sugli angeli. 
Nel nono verso si ribadisce che il Messia ha amato la giustizia e odiato l’iniquità, in specialmodo durante la sua missione terrena, durante la quale ha dimostrato, siccome non ha mai peccato, di essere idoneo a regnare per sempre. A causa della sua perfezione Dio lo ha “unto”, ossia lo ha consacrato Messia e Signore. 
Vediamo gli ultimi quattro versi del primo capitolo della Lettera agli Ebrei: 

10E ancora:
In principio tu, Signore, hai fondato la terra
e i cieli sono opera delle tue mani.
11Essi periranno, ma tu rimani;
tutti si logoreranno come un vestito.
12Come un mantello li avvolgerai,
come un vestito anch’essi saranno cambiati;
ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni non avranno fine.
13E a quale degli angeli poi ha mai detto:
Siedi alla mia destra,
finchè io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?
14Non sono forse tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati a servire coloro che erediteranno la salvezza?

Nel decimo verso si riporta il Salmo (102, 25): “nel passato tu hai creato la terra e i cieli sono opera delle tue mani”. Gesù Cristo viene pertanto individiato come il Creatore del cielo e della terra. Questo messaggio coincide perfettamente con il terzo verso del Vangelo di Giovanni. 
Nei versi undicesimo e dodicesimo la transitorietà della creazione è contrapposta alla eternità del Creatore. Ogna cosa è temporanea: le stelle, la terra, i fiumi, le montagne, le piante, gli animali e l’uomo, eccetto il Creatore, che è eterno. 
Nel verso tredicesimo vi è una ulteriore citazione (Salmo 110, 1), che dimostra la superiorità del Figlio. In questo Salmo Dio si rivolge al Messia con queste parole: “Siedi alla mia destra finchè abbia posto i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi”. Ovviamente a nessuno degli angeli Dio disse una cosa simile. 
Nel quattordicesimo verso si ribadisce che gli angeli sono esseri spirituali che Dio ha creato per servire coloro che devono ereditare la salvezza. Pertanto sono infinitamente inferiori al Figlio, che è Dio, ed è consustanziale al Padre. 

Yuri Leveratto