Il processo indigenista che ha portato alla valorizzazione delle culture autoctone in Sud America è iniziato quando, nel 1910, l’esploratore e “sertanista” Candido Rondon fu nominato direttore del “Servizio di protezione degli indigeni”.
In seguito, come è noto, furono demarcate ed istituite numerose terre indigene (oggi sono corca 600 per un totale di più di un milione di chilometri quadrati e un totale di circa 600.000 autoctoni), con lo scopo di preservare le culture dei nativi e proteggere gli indigeni da cercatori illegali di oro, legname pregiato, pietre preziose ecc.
A distanza di circa quarant’anni dall’inizio delle prime demarcazioni si è notato che i problemi non sono diminuiti, anzi a volte sono aumentati. L’aver separato completamente gli indigeni dai non indigeni ha favorito il crearsi di sentimenti di odio da parte dei nativi verso i brasiliani non nativi. A volte la situazione è degenerata in veri conflitti sociali come nel caso delle terre indigene Raposa Serra do Sol e Roosevelt.
Alcuni giornalisti brasiliani hanno da qualche tempo denunciato questa situazione, sostenendo che le tesi indigeniste ed ambientaliste nascondono in realtà un progetto di privatizzazione globale dell’Amazzonia brasiliana.
Secondo queste idee, a volte individuate come “ruraliste”, le demarcazioni di immense terre servirebbero per mostrare al mondo che il governo del Brasile preserva le culture dei nativi e difende i loro territorio, mentre in realtà si permetterebbe a ong estere di entrare nelle aree in questione che, con la complicità dei nativi ormai corrotti, si approprierebbero di biodiversità, oro, pietre preziose, idrocarburi e legna pregiata.
Ricordo che solo il fatto di demarcare un’area ricca di oro (come la terra indigena Yanomami, grande come il Portogallo), e la conseguente decisione di espellere tutti i cercatori d’oro illegali da quel territorio, è stata la causa diretta di un aumento del prezzo dell’oro sulle piazze di Londra e New York (1992).
Le demarcazioni di oltre 600 terre indigene hanno causato anche dibattiti sociali, in quanto gli indigeni sono stati individuati, con lo “statuto del indio” come soggetti non perseguibili dalla legge, quindi comparati a minori di età o soggetti non capaci di intendere e di volere.
In pratica sono persone che godono di uno status diverso rispetto ai normali cittadini brasiliani.
Le loro tradizioni, usanze e pratiche più ancestrali sono state rispettate, anche quando sono contrarie al senso comune o ai principi fondamentali delle società occidentali.
Mi riferisco in particolare alla pratica dell’infanticidio, in uso in alcune culture indigene amazzoniche, come quella degli Yanomami, che ancora oggi sacrificano la primogenita se femmina, secondo loro per il bene della comunità (1)(2)(3).
In seguito, come è noto, furono demarcate ed istituite numerose terre indigene (oggi sono corca 600 per un totale di più di un milione di chilometri quadrati e un totale di circa 600.000 autoctoni), con lo scopo di preservare le culture dei nativi e proteggere gli indigeni da cercatori illegali di oro, legname pregiato, pietre preziose ecc.
A distanza di circa quarant’anni dall’inizio delle prime demarcazioni si è notato che i problemi non sono diminuiti, anzi a volte sono aumentati. L’aver separato completamente gli indigeni dai non indigeni ha favorito il crearsi di sentimenti di odio da parte dei nativi verso i brasiliani non nativi. A volte la situazione è degenerata in veri conflitti sociali come nel caso delle terre indigene Raposa Serra do Sol e Roosevelt.
Alcuni giornalisti brasiliani hanno da qualche tempo denunciato questa situazione, sostenendo che le tesi indigeniste ed ambientaliste nascondono in realtà un progetto di privatizzazione globale dell’Amazzonia brasiliana.
Secondo queste idee, a volte individuate come “ruraliste”, le demarcazioni di immense terre servirebbero per mostrare al mondo che il governo del Brasile preserva le culture dei nativi e difende i loro territorio, mentre in realtà si permetterebbe a ong estere di entrare nelle aree in questione che, con la complicità dei nativi ormai corrotti, si approprierebbero di biodiversità, oro, pietre preziose, idrocarburi e legna pregiata.
Ricordo che solo il fatto di demarcare un’area ricca di oro (come la terra indigena Yanomami, grande come il Portogallo), e la conseguente decisione di espellere tutti i cercatori d’oro illegali da quel territorio, è stata la causa diretta di un aumento del prezzo dell’oro sulle piazze di Londra e New York (1992).
Le demarcazioni di oltre 600 terre indigene hanno causato anche dibattiti sociali, in quanto gli indigeni sono stati individuati, con lo “statuto del indio” come soggetti non perseguibili dalla legge, quindi comparati a minori di età o soggetti non capaci di intendere e di volere.
In pratica sono persone che godono di uno status diverso rispetto ai normali cittadini brasiliani.
Le loro tradizioni, usanze e pratiche più ancestrali sono state rispettate, anche quando sono contrarie al senso comune o ai principi fondamentali delle società occidentali.
Mi riferisco in particolare alla pratica dell’infanticidio, in uso in alcune culture indigene amazzoniche, come quella degli Yanomami, che ancora oggi sacrificano la primogenita se femmina, secondo loro per il bene della comunità (1)(2)(3).
Secondo la teoria del relativismo culturale, sviluppata dall’ebreo tedesco Franz Boas (1858-1942), non esistono il bene e il male in senso assoluto, ma questi concetti hanno valore solo all’interno delle culture umane.
Ecco quindi che l’infanticidio per cause propiziatorie o salvifiche è tollerato, e anche per esempio la mutilazione del clitoride in alcune culture tribali africane deve essere rispettata.
Franz Boas pertanto, in contrapposizione a Edward Tylor (1832-1917), sosteneva che non si può giudicare il comportamento di una persona che agisce all’interno della sua etnia, in quanto il suo concetto di bene e di male è differente da quello di altre persone appartenenti ad altre etnie.
Secondo questo concetto, pertanto, l’essere umano sarebbe imprigionato nella sua cultura, e non si potrebbe liberare, abbracciando concetti universali di non violenza, rispetto totale per il prossimo e diritto alla vita.
Nel Brasile di oggi la polemica è accesa tra gli antropologi sostenitori del relativismo culturale e quelli che sostengono l’universalità dell’etica.
Alla base di quest’ultimo concetto vi è l’idea che al di sopra delle culture vi siano dei precetti universali, proprio perché le diverse culture umane fanno parte di un insieme maggiore, ossia la società umana nel suo complesso.
Il brasiliano Sergio Rouanet (1934), sostiene che “l’uomo non può vivere al di fuori della sua cultura, ma essa non è il suo destino, è solo un mezzo per raggiungere la libertà”.
La polemica è aperta: da una parte gli indigenisti puri che sostengono che le società dei nativi amazzonici sono “intatte”, cioè non influenzate dalla malvagità dell’ “uomo bianco”.
E’ il mito del “buon selvaggio”, cioè la teoria, peraltro confutata dalla maggioranza degli antropologi, che sostiene che gli indigeni siano buoni e non conoscano il male.
Coloro i quali sostengono questa tesi, dimenticano appunto i sacrifici umani delle società mesoamericane (maya, aztechi), ma anche quelli perpetrati dagli incas (vedi la mummia Juanita), e basicamente disconoscono il caso degli infanticidi delle culture attuali amazzoniche, o si limitano a sostenere che la cultura indigena deve essere rispettata nella sua totalità, dimenticandosi che la morte di un bambino innocente è un atto che a mio parere deve essere fermato, magari affiancando alla tribù degli psicologi in modo da rendere meno forte il distacco da tradizioni ancestrali.
Anche qui però si apre un altro dibattito: ammettendo che l’indigeno che stava compiendo quell’infanticidio non sia perseguibile dalla legge brasiliana (statuto dell’indio), è compito della società insegnarli i fondamenti dei diritti umani o si dovrebbe lasciarlo alla sua cultura (con il rischio però che commetta un altro infanticidio?)
Secondo la tesi dell’universalità dell’etica, che io condivido, vi sono invece dei precetti generici, che sono peraltro stati definiti nella “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” approvata nel 1948 alle Nazioni Unite, che a sua volta deriva dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, elaborata durante la Rivoluzione Francese.
Questi precetti, che affermano che “tutte le persone nascono libere e uguali nelle libertà e nei diritti”, e “che tutte le persone hanno diritto alla vita, alla dignità e alla sicurezza personale”, liberano l’uomo dalle sue culture ancestrali, e lo rendono portatore di diritti fondamentali che vengono situati al di sopra delle usanze tribali e culturali.
Il discorso si potrebbe ampliare: per esempio i Testimoni di Geova che sono contrari alle trasfusioni di sangue. Si sono verificati casi di famiglie aderenti a questa religione che volevano privare i loro figli malati della possibilità di ottenere una trasfusione, cosa che avrebbe causato la morte del minore. Anche in questo caso, secondo me vi è un concetto maggiore della culturalità (o in questo caso della religiosità), ed è appunto il concetto del diritto alla vita di quel minore.
Tornando all’indigenismo che è in atto in Brasile ed in altri stati dell’area amazzonica, come per esempio la Bolivia: a mio parere il concetto di universalità dell’etica deve prevalere sulle pratiche infanticide in uso in alcune tribù amazzoniche.
La Bolivia è stata recentemente trasformata da “Repubblica” a “Stato plurinazionale” ed anche il Brasile sta lentamente diventando una nazione plurietnica, con 234 popoli riconosciuti e 180 lingue differenti parlate.
Questa creazione di “nazioni” ognuna separata dall’altra, dove gli indigeni sono indottrinati nella loro cultura ma non hanno accesso ad altre concezioni di vita, e dove un capo tribù gestisce l’amministrazione di aree a volte grandi come uno stato europeo, può portare facilmente ad episodi di corruzione, mi riferisco all’entrata in questi territori di entità esterne che poi si approprieranno di biodiversità, minerali preziosi ed idrocarburi.
Coloro i quali appoggiano l’indigenismo dall’esterno, sostenendo il relativismo culturale, o proponendo un “ripensamento dei Diritti Umani”, stanno indirettamente isolando ancora di più gli indigeni, facendo credere loro di essere depositari della “vera cultura”, e li stanno indebolendo sempre più, in quanto non saranno in grado di difendersi da attacchi esterni, mentre invece saranno facilmente corrompibili.
Ecco quindi che l’infanticidio per cause propiziatorie o salvifiche è tollerato, e anche per esempio la mutilazione del clitoride in alcune culture tribali africane deve essere rispettata.
Franz Boas pertanto, in contrapposizione a Edward Tylor (1832-1917), sosteneva che non si può giudicare il comportamento di una persona che agisce all’interno della sua etnia, in quanto il suo concetto di bene e di male è differente da quello di altre persone appartenenti ad altre etnie.
Secondo questo concetto, pertanto, l’essere umano sarebbe imprigionato nella sua cultura, e non si potrebbe liberare, abbracciando concetti universali di non violenza, rispetto totale per il prossimo e diritto alla vita.
Nel Brasile di oggi la polemica è accesa tra gli antropologi sostenitori del relativismo culturale e quelli che sostengono l’universalità dell’etica.
Alla base di quest’ultimo concetto vi è l’idea che al di sopra delle culture vi siano dei precetti universali, proprio perché le diverse culture umane fanno parte di un insieme maggiore, ossia la società umana nel suo complesso.
Il brasiliano Sergio Rouanet (1934), sostiene che “l’uomo non può vivere al di fuori della sua cultura, ma essa non è il suo destino, è solo un mezzo per raggiungere la libertà”.
La polemica è aperta: da una parte gli indigenisti puri che sostengono che le società dei nativi amazzonici sono “intatte”, cioè non influenzate dalla malvagità dell’ “uomo bianco”.
E’ il mito del “buon selvaggio”, cioè la teoria, peraltro confutata dalla maggioranza degli antropologi, che sostiene che gli indigeni siano buoni e non conoscano il male.
Coloro i quali sostengono questa tesi, dimenticano appunto i sacrifici umani delle società mesoamericane (maya, aztechi), ma anche quelli perpetrati dagli incas (vedi la mummia Juanita), e basicamente disconoscono il caso degli infanticidi delle culture attuali amazzoniche, o si limitano a sostenere che la cultura indigena deve essere rispettata nella sua totalità, dimenticandosi che la morte di un bambino innocente è un atto che a mio parere deve essere fermato, magari affiancando alla tribù degli psicologi in modo da rendere meno forte il distacco da tradizioni ancestrali.
Anche qui però si apre un altro dibattito: ammettendo che l’indigeno che stava compiendo quell’infanticidio non sia perseguibile dalla legge brasiliana (statuto dell’indio), è compito della società insegnarli i fondamenti dei diritti umani o si dovrebbe lasciarlo alla sua cultura (con il rischio però che commetta un altro infanticidio?)
Secondo la tesi dell’universalità dell’etica, che io condivido, vi sono invece dei precetti generici, che sono peraltro stati definiti nella “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” approvata nel 1948 alle Nazioni Unite, che a sua volta deriva dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, elaborata durante la Rivoluzione Francese.
Questi precetti, che affermano che “tutte le persone nascono libere e uguali nelle libertà e nei diritti”, e “che tutte le persone hanno diritto alla vita, alla dignità e alla sicurezza personale”, liberano l’uomo dalle sue culture ancestrali, e lo rendono portatore di diritti fondamentali che vengono situati al di sopra delle usanze tribali e culturali.
Il discorso si potrebbe ampliare: per esempio i Testimoni di Geova che sono contrari alle trasfusioni di sangue. Si sono verificati casi di famiglie aderenti a questa religione che volevano privare i loro figli malati della possibilità di ottenere una trasfusione, cosa che avrebbe causato la morte del minore. Anche in questo caso, secondo me vi è un concetto maggiore della culturalità (o in questo caso della religiosità), ed è appunto il concetto del diritto alla vita di quel minore.
Tornando all’indigenismo che è in atto in Brasile ed in altri stati dell’area amazzonica, come per esempio la Bolivia: a mio parere il concetto di universalità dell’etica deve prevalere sulle pratiche infanticide in uso in alcune tribù amazzoniche.
La Bolivia è stata recentemente trasformata da “Repubblica” a “Stato plurinazionale” ed anche il Brasile sta lentamente diventando una nazione plurietnica, con 234 popoli riconosciuti e 180 lingue differenti parlate.
Questa creazione di “nazioni” ognuna separata dall’altra, dove gli indigeni sono indottrinati nella loro cultura ma non hanno accesso ad altre concezioni di vita, e dove un capo tribù gestisce l’amministrazione di aree a volte grandi come uno stato europeo, può portare facilmente ad episodi di corruzione, mi riferisco all’entrata in questi territori di entità esterne che poi si approprieranno di biodiversità, minerali preziosi ed idrocarburi.
Coloro i quali appoggiano l’indigenismo dall’esterno, sostenendo il relativismo culturale, o proponendo un “ripensamento dei Diritti Umani”, stanno indirettamente isolando ancora di più gli indigeni, facendo credere loro di essere depositari della “vera cultura”, e li stanno indebolendo sempre più, in quanto non saranno in grado di difendersi da attacchi esterni, mentre invece saranno facilmente corrompibili.
YURI LEVERATTO
Copyright 2014
Copyright 2014
E’ possibile riprodurre questo articolo indicando chiaramente il nome dell’autore e aggiungendo un link alla fonte.
(1)http://www.humanium.org/en/infanticide/
(2)https://www.umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/case_studies/yanomamo/marriage.html
(3)http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/1555339/Girl-survived-tribes-custom-of-live-baby-burial.html
(2)https://www.umanitoba.ca/faculties/arts/anthropology/tutor/case_studies/yanomamo/marriage.html
(3)http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/1555339/Girl-survived-tribes-custom-of-live-baby-burial.html